La Stampa, 7 luglio 2019
Biografia di Tom Hanks
Quello che colpisce maggiormente è quanto sia affabile, e ti accorgi subito che è qualcosa di sincero: hai l’impressione che senta il dovere del garbo, della gentilezza, della disponibilità, e che sia consapevole di essere la nuova impersonificazione dell’uomo medio americano, l’average Joe che ha costruito la grandezza del suo Paese. Insomma di avere un ruolo da interpretare ed essere nello stesso tempo un’icona, come lo è stato in passato James Stewart. E come gran parte delle icone americane, Thomas Jeffrey Hanks è discendente da genitori provenienti da altri Paesi: la madre Janet era portoghese mentre il padre Amos era uno chef inglese, discendente della madre del presidente Lincoln. Tom ha sofferto molto per il divorzio dei genitori, e quando il padre ha sposato la cinese Frances Wong è cresciuto con i suoi tre figli, cambiando dieci abitazioni nel giro di cinque anni. «Ero di una timidezza impressionante», racconta, ma poi sorride quando riflette che alla sua personale celebrazione del melting pot può aggiungere le origini greche della moglie Rita Wilson, per la quale si è convertito al cristianesimo di rito ortodosso.
L’ho conosciuto grazie alla scrittrice australiana Anna Funder, la quale ricevette una sua lettera di ammirazione per il libro C’era una volta la Ddr: sulle prime credeva fosse uno scherzo, ma poi avviò una corrispondenza epistolare che si è trasformata in una solida amicizia. Quella prima sera mi parlò di quanto possa essere complicata la vita quotidiana per una grande star: «Non che mi lamenti», chiarì, «sarebbe assurdo e offensivo, ma è come andare in giro con un pollo in testa: tutti si girano verso di te, e la cosa più inquietante è che in verità non meritiamo tutta questa attenzione». All’epoca stava per girare il primo dei film tratti da Dan Brown, e scherzava sul fatto che fosse ripetutamente chiamato a «salvare il mondo». È molto legato a Ron Howard, che gli ha dato la prima grande opportunità con Splash, ma è del tutto consapevole che si è trattato di un’operazione commerciale: è sempre severo con sé stesso e del Falò delle vanità dice che «le scelte di cast erano tutte sbagliate, a cominciare da me».
Sono pochissimi i personaggi non positivi che ha interpretato in carriera, e ne parla con divertimento: Michael Sullivan, il killer malinconico di Era mio padre, e Proteo nei Due gentiluomini di Verona, che interpretò giovanissimo sul palcoscenico. Pochi ricordano i suoi trascorsi teatrali, ma lui ne parla come una formazione artistica indispensabile. E ricorda che in quel periodo vendeva bibite e noccioline allo stadio di Oakland, ascoltando Elvis Presley e scoprendo quello che è tuttora il suo film preferito: 2001 Odissea nello spazio. Sin da allora ha amato lo sport e la cultura popolare del suo Paese: è un fan sfegatato dei Cleveland Indians e segue la musica giovane, specie da quando il figlio Marlon è diventato un rapper. Non è solo James Stewart l’icona americana di riferimento: ha come modello anche Spencer Tracy, con il quale condivide il record di aver vinto due Oscar consecutivi, nel suo caso per Philadelphia e Forrest Gump.
Insieme all’eccellenza interpretativa, sono ormai trent’anni che rappresenta una sicura garanzia al botteghino: se si somma l’incasso dei suoi film, limitandosi esclusivamente ai biglietti venduti, si raggiungono i dieci miliardi di dollari. Ma di questo non parla, mentre è felice di raccontare la collaborazione con Steven Spielberg, con cui ha girato cinque film e ha co-prodotto Band of Brothers - Fratelli al fronte e The Pacific, dove si è cimentato anche nella regia.
Si appassiona quando parla di opere realizzate «per ricordare il sacrificio di chi ha salvato il mondo dalla barbarie». In questo caso, quando parla di salvare il mondo, non scherza affatto, e parla con orgoglio: «Prova a pensare solo un attimo cosa sarebbe il mondo senza la decisione di Roosevelt dopo il "giorno dell’infamia" a Pearl Harbour. Pensa a quei migliaia di ragazzi americani che sono morti per la libertà di tutti a Daytona Beach: Steven lo ha raccontato come nessuno, e in Salvate il soldato Ryan ho cercato di fare la mia parte». Un giorno parlammo della folgorante sequenza iniziale del film: ciò che la rende unica non è solo lo strabiliante talento registico, ma l’intuizione geniale per cui in quel momento muore tutto, anche la natura. «I pesci che galleggiano insieme ai cadaveri!» disse, ancora emozionato, e quando gli ricordai il verso di Garcia Lorca «tambien se muere el mar» rimase in silenzio: «I grandi artisti dialogano tra loro anche quando parlano di cose diversissime».
Oggi sembra un altro uomo rispetto a quello delle commedie romantiche negli anni 90, dove duettava meravigliosamente con Meg Ryan, e i modi gentili nascondono a stento uno sguardo affilato, consapevole, che Robert Zemeckis è riuscito a stravolgere in due interpretazioni memorabili: Cast Away e Forrest Gump. «Recitare è anche sottrarre», teorizza, e nelle sfumature che riesce a dare a ogni ruolo vedi la differenza con chi invece gigioneggia. Formidabile quanto ha fatto in Philadelphia: la pena che riesce a trasmettere per il suo personaggio ammalato di Aids trova il massimo momento di commozione quando ascolta l’Andrea Chenier sotto lo sguardo attonito di un altro grande interprete come Denzel Washington. «Quando reciti con un attore di qualità diventi più bravo, e non è solo una questione di competizione».
È un principio che vale anche per lui: sono otto gli attori che recitando al suo fianco hanno ricevuto una candidatura agli Oscar. Quando parla di recitazione si lascia andare a un’irresistibile imitazione di Clint Eastwood, che lo ha diretto in Sully, e poi elenca la sua lista di attori preferiti: «Jason Robards, Jack Nicholson e Robert Duvall, uno a cui basta camminare, per essere grande». Anche in questo ti accorgi che, dietro la riservatezza, Tom è un uomo gioviale, che non si tira mai indietro quando può fare qualcosa che renda felice il suo interlocutore: quando venne alla Festa del Cinema si fece fotografare con gli attori adolescenti di Moonlight, che non credevano ai loro occhi, e dopo essere tornato a Los Angeles spedì una macchina da scrivere a un fan che gli aveva regalato un album nel quale aveva disegnato i suoi personaggi.
Quella delle macchine da scrivere è una passione diventata nota quando ha brevettato un’app di grande successo chiamata Hanx Writer, grazie alla quale è possibile ricreare il rumore delle Olivetti. Non si tratta di nostalgia del passato, ma della passione per la tecnologia che lo porta a entusiasmarsi per i viaggi nello spazio. «È il primo motivo per cui ho interpretato Apollo 13», racconta, e potrebbe parlare per ore della Nasa e della conquista di nuovi orizzonti: anche in questo è profondamente americano. Non è diversa la passione per le costruzioni: è lui, assieme a Spielberg, a seguire in prima persona la realizzazione del museo dell’Academy di Renzo Piano, di cui è diventato amico. Tra un bozzetto e l’altro, ho parlato con lui anche di politica, perché Tom è un democratico convinto, sempre in prima fila per ogni battaglia per l’ambiente e i diritti civili: «Confesso che mi ha molto emozionato il fatto che Obama mi abbia dato la Medaglia della Libertà». Pronuncia il nome del presidente con una rabbiosa malinconia: «Ho imparato da lui che la più grande battaglia da combattere è quella contro il cinismo».