La Stampa, 7 luglio 2019
1943, i cenciosi alla riscossa
Nell’occupare le terre incolte, i braccianti avanzarono guardinghi i passi. Ma con il sangue agli occhi e decisi, battaglieri, rassegnati allo scontro. Era il 1943, l’autunno dopo l’armistizio. La fame non si lasciava ragionare, i più dovendo acquietare lo stomaco, per pranzo e per cena, con gli effluvi di cottura che esalavano dalle poche case dove borbottava acqua nella pentola. Al punto da non aver sopportato che quel ben di Dio che si spalancava interminabile alla vista, latifondi in mano a pochi terrieri, in una continuazione del feudalesimo, producesse solo le foglie secche già cadute a terra o che ancora si aggrappavano ai rami o che la brezza volteggiava leggere nell’aria.
Assieme alla fame, l’idea di poter mutare ciò ch’era sempre parso immutabile, solidificato dal perdurare uguale nei secoli. Sogni di un futuro migliore che sempre s’affacciano all’alba delle svolte epocali. E la liberazione che risaliva la penisola, sebbene si fosse inceppata sulla linea Gustav e su Montecassino, aveva le sembianze di una svolta epocale, mentre lo Stato era disperso dentro una nebbia fitta da lasciarsi immaginare solida, da poterla penetrare solo tagliandola a fette, e sfornava governi di pochi mesi in attesa che finisse di compiersi la Storia, mentre nobili e latifondisti - gli ’gnuri - padroni dei destini di tutti, avevano abbassato la mano romana e già si affrettavano ad afferrare il bastone della bandiera che svettava più in alto, agitata dal vento della patria che si ricostruiva dalle ceneri della precedente.
L’avvio lo diedero i braccianti di Casabona, occupando le terre del barone Berlingieri. Da lì a pochi giorni, si mossero quelli di Melissa, Strongoli, Cirò, San Nicola dell’Alto. Presto i moti s’estesero a tutti i comuni del Marchesato, nel Crotonese. Furono le prime rivendicazioni nel secondo dopoguerra, scintille che sorsero spontanee, allargarono i fuochi al resto della nazione e divennero una rivalsa legittima appena la avallarono i sei decreti, tra ottobre ’44 e aprile ’45, che s’opponevano all’enorme disparità sociale - sul pagamento dei canoni di affitto, sui contratti di mezzadria, sulle terre incolte da destinare alle Associazioni dei contadini.
Li emanò Fausto Gullo, catanzarese, avvocato, comunista, già deputato nel ’24, carcere e confino durante il fascismo, promotore, assieme a Gramsci, dello sciopero generale dopo il delitto Matteotti. Li emanò da ministro dell’Agricoltura di quei brevi governi unitari. A cominciare dal secondo governo Pietro Badoglio, che succedeva a sé stesso e che si rivelava una buona pietra pomice se galleggiava nonostante le responsabilità tattiche nella disfatta di Caporetto, nonostante il gas iprite utilizzato in Abissinia e che in seguito gli comportò l’accusa di crimini contro l’umanità, nonostante la sanguinaria riconquista della Libia che decimò la popolazione cirenaica, internata in campi in pieno deserto, e si completò con l’impiccagione di Omar al Mukhtar, l’eroe libico a cui Gheddafi rese un plateale e polemico omaggio durante la visita ufficiale in Italia, sotto l’egida Berlusconi. Gullo mantenne il ministero nei governi successivi, i due a guida Bonomi, il Parri, il primo De Gasperi. Passò poi a quello della Giustizia nel secondo De Gasperi, sostituito nell’Agricoltura dal terriero Antonio Segni, per la politica che quietava gli stravolgimenti e provava a riassestare gli antichi equilibri.
Nonostante sia stato ministro solo dall’aprile ’44 al gennaio ’47, Gullo seppe scuotere dall’immobilità i braccianti fino allora servi da accogliere, quasi fosse carità cristiana, la pacca benevola che concedeva una giornata di zappa malpagata e sotto le sferzate di lingua del padrone di turno. Su quella spinta, le lotte contadine si accesero negli anni successivi. I moti si estesero sulla Presila, sulla fascia ionica e tirrenica, fino a coinvolgere l’Italia tutta. In migliaia a sollevarsi.
Erano contadini senza terra, braccianti agricoli, soldati rientrati dal fronte, indigenti privi di un’occupazione, donne battagliere. Composero una pagina di storia gloriosa per la Calabria. Marciarono ancora e ancora a occupare lo spreco, a pretendere l’attuazione dei decreti. Giungevano vocianti nei campi abbandonati. E avevano preso l’abitudine di comparire con gli abiti tenuti da parte per le grandi occasioni di parata che ha il popolino, fosse morte o matrimonio, gli uomini nel vestito di velluto nero, con la coppola di rappresentanza, le scarpe che i piedi non avevano imparato a camminare, le gambe di traverso sul basto del mulo, dell’asino, e sempre gli attrezzi di lavoro.
C’erano con loro i bambini, e le mogli agghindate con le lunghe saie della tradizione popolare, dai colori sgargianti negli ampi piegoni che scendevano fin quasi a strusciare in terra, gli scialli sulle spalle, in testa o la cortara con il vino, con l’acqua, con i cesti con le cibarie, tenuti in perfetto equilibrio sul supporto di una corona di pezza, o la veletta ricamata della messa, mentre sillabavano preghiere sgranando la corona del Rosario, in contrasto con i fazzoletti rosso proletario al collo dei mariti.
Pareva un giorno di festa. E giorno di festa lo avvertivano. Fu ben altro il 28 novembre 1946 a Calabricata, allora comune di Albi e oggi di Sellia Marina, quando Giuditta Levato, incinta di sette mesi, cadde sotto il piombo del fucile di un campiere. Peggio, a Melissa, il 30 ottobre 1949, lì tre i morti e quindici i feriti, per gli spari della polizia inviata dal ministro dell’Interno Mario Scelba a contrastare gli occupanti del fondo Fragalà del barone Berlingieri, che per di più aveva esteso, per diritto di forza e di lignaggio, il suo possesso anche alla metà che non gli apparteneva.
Furono Fausto Gullo - un uomo illuminato da precorrere i tempi, il «ministro dei contadini», come lo annomarono - e quegli eserciti cenciosi che si opponevano alla palude dei tempi e invadevano lo sciupio di buona terra lasciata improduttiva a mortificare la miseria e il sangue versato dalla tracotanza del privilegio a ingenerare, a partire dal 1950, una catena di provvedimenti fino alla riforma agraria.