il Giornale, 7 luglio 2019
Ritratto di Margherita Sarfatti
Con la paglietta inclinata sull’orecchio, l’uomo esce dalla propria casa di Foro Buonaparte 38 e, a passo svelto, muove verso il centro. Però all’altezza di corso Vittorio Emanuele scantona bruscamente per via San Pietro all’Orto. Spera di non fare brutti incontri, per esempio quel dannato Turati, che è un habitué. Risale la strada sino a un portoncino sulla sinistra contrassegnato con il numero 5, suona con insistenza il campanello, poi si pente. Guarda l’ora, che diavolo, già le 8. Troppo tardi, alle 8:30 ha da essere al Teatro Manzoni per assistere al Cigno di Ferenc Molnar, lo ha promesso a lei. E poi, meglio ostentare calma, farsi vedere in pubblico. Fa per allontanarsi quando il portoncino si schiude. Una voce femminile chiede «chi è?». «Sono io! Occhiacci! Il professore». Entra, si scusa. Chiede di salire nel separé ma solo per una telefonata. Anzi, due. Dal Popolo d’Italia Arnaldo gli comunica che al momento non ci sono novità. E dalla casa di lei, corso Venezia 93, la cameriera risponde che la signora è già uscita. Dopo un’occhiata pensosa alle ragazze, sedute in fila davanti alla cassa, esce rapido anche lui. Quando raggiunge il Manzoni, l’atrio è già pieno. Qualcuno lo riconosce, scoppia un accenno da applauso. Lui, scuotendo il testone e agitando la destra sorridendo, si schermisce. Raggiunge il palco, lei è lì ad attenderlo.
Nel momento forse più cruciale della sua vita, alla vigilia della Marcia su Roma, Mussolini volle comparire in pubblico, accanto a Margherita Sarfatti. È un fatto che la dice lunga. Su entrambi. Lui si sentiva gratificato dalla sua presenza, in una sorta di «promozione sociale»: Margherita era ricca, elegante, decisa, colta (ma si legga qui accanto il feroce e un po’ ingeneroso ritratto che ne fece Giovanni Ansaldo nel 1934). Il suo appartamento di corso Venezia, con mobili e tappeti e quadri di gran pregio, era frequentato da industriali e uomini politici, dal senatore Borletti a Benigno Crespi, con un salotto letterario artistico che ospitava Sironi, Carrà, Tosi, Adolfo Wildt (le fece uno splendido busto in marmo) e addirittura Gabriele d’Annunzio. Quanto a lei, Margherita, era ben felice, ormai da quasi un decennio, di essere «la donna del capo».
Si erano conosciuti esattamente il 30 novembre 1912 quando lui, appena nominato direttore dell’Avanti!, rifiutò le dimissioni da critico d’arte presentategli da una giovane signora elegante, che arrotava le erre e si esprimeva con proprietà, così diversa dalla sua Rachele che gli parlava sempre in dialetto, ripetendogli spesso la frase di quando si erano conosciuti: «E vo’, Benito, ac’bel omazz ca si devantè». E poi era bella, Margherita, o almeno bella secondo il gusto suo: alta, di gran piglio, lunghi capelli raccolti a crocchia, fianchi robusti, petto imponente. Infatti lui, uomo dell’800, e per di più romagnolo, già allora disprezzava le magre, dalle Gibson Girls alla garçonne (sul piano generale, molto generale, potremo osservare che i dittatori in carica, o in pectore com’era lui in quel 1912, proprio per la loro estrazione popolare hanno sempre avuto preferenze – Hitler e Stalin inclusi – per il tipo pienotto, ben provveduto di cuscinetti adiposi, ma questo è un altro discorso).
Di cospicua famiglia israelita, i Fazzini, e sposa (non felice) dal 1898 con l’avvocato israelita Cesare Sarfatti, Margherita (madre di tre figli: Amedeo, Roberto e Fiammetta) era nata a Venezia l’8 aprile 1880, ed era quindi maggiore di 3 anni a lui, classe 1883. Trasferitasi a Milano nel 1905, grazie alla Kuliscioff era diventata collaboratrice dell’Avanti! per la critica d’arte. Insoddisfatta della vita di famiglia, e smaniosa di affermarsi come giornalista, era stata subito conquistata da Mussolini, che ne intensificò la collaborazione al suo foglio e alla sua rivista Utopia. Dapprima lui ne fu anche irritato, tanto che nel marzo 1913 così la definì a Leda Rafanelli, un’affascinante anarchica: «È bella, ma ha un’anima subdola, avara, sordida anzi... La sua spilorceria mi disgusta. È ricca e abita in un gran palazzo di corso Venezia. Ebbene, quando viene pubblicato un suo articolo, manda la cameriera all’Avanti! per ritirarne tre copie...».
In quest’epoca era socialriformista, Margheritona, ammiratrice di Turati e frequentatrice del salotto dell’Anna, la Kuliscioff, su al quarto piano di via Portici Galleria 23. Ma quando Mussolini riempì tutta la terza pagina dell’Avanti! (18 ottobre 1914) con il celebre articolo Dalla neutralità assoluta alla neutralità attiva e operante, non esitò, e divenne interventista. Seguì Mussolini (14 novembre) al Popolo d’Italia e a lui, sempre irsuto e selvatico, continua a dare lezioni di belle maniere, con scarsi risultati. Perché in realtà era lei a essere completamente presa del futuro Duce, anzi – com’ella stessa scrive – «fremida», con fremiti carnali di devozione.
Mussolini abitava allora un modesto tricamere in via Castelmorrone 19 (si trasferirà nel giugno 1918 nel più ampio appartamento di Foro Buonaparte) con Rachele detta Chiletta e la figlia Edda (nata il primo settembre 1910, poi avrà Vittorio il 27 settembre 1916). Sposerà civilmente Rachele solo il 16 dicembre 1915, durante una licenza di convalescenza: ma era lei la sua arzdora, la matriarca romagnola di casa, la sua vera compagna. Musslèn, Chiletta lo chiamava così, ne era gelosissimo, coltivando però altre amicizie, sempre fugaci. Mercenarie, in quella tal casa di via San Pietro all’Orto, o appena più impegnative (con la Rafanelli, pare senza carnali successi, e con la masseuse trentina Ida Dalser da cui ebbe il figlio Albino, morto nel marzo 1941).
Con Margherita la faccenda era più seria. Il loro rapporto, già stretto, si intensificò quando il figlio di lei, Roberto, cadde a 17 anni sul colle d’Echele (28 gennaio 1918). Benito andava a trovarla spesso nella villa Il Soldo che lei aveva a Cavallasca presso Como, su una rossa Alfa Romeo nuova di zecca, e la conduceva con la figlia Fiammetta in gita sul lago d’Orta, a Macugnaga, sul Garda. Rachele, che con le altre lasciava correre, capì il rischio. E si infuriò. Quando la Sarfatti le si presentò in casa nella primavera del ’21 per fare visita a Mussolini, ferito in un piccolo incidente aereo, la aggredì urlando: «Vi faccio neri tutti e due, comm un capel da pritt»,come un cappello da prete, e minacciò di buttarla dalla finestra.
Ma la relazione continuò. Grazie a Margheritona (o, come anche sgradevolmente la chiamava lui, «Vela mia ti ripeti»: frase che altrimenti scomposta ha il suono di un imbarazzante difetto fisico gonfia-gonne), Mussolini indossava migliori cravatte, aveva smesso di mangiare con il coltello e quasi non bestemmiava più (a perfezionargli la mise e le buone creanze, ma con risultati altrettanto scarsi, dopo il 1922, sarà il diplomatico Mario Pansa). Lei gli preparava ogni giorno un’ampia rassegna stampa, gli dava di continuo consigli anche su chi frequentare, a chi chiedere finanziamenti.
Comprensibile quindi che, quella sera del 27 ottobre 1922, Mussolini avesse accettato di buon grado di mostrarsi accanto a lei sul palco del teatro Manzoni. Però ben deciso stavolta a fare politicamente di testa sua. Quando Luigi Freddi, a metà del primo atto, gli si precipitò nel palco per annunciare che la marcia era cominciata, Margherita lo esortò subito a partire. «Al tempo», rispose laconico Mussolini, continuando a godersi lo spettacolo. Con la stessa insistenza, ma di nuovo inutilmente, lei tentò di convincerlo la sera successiva nella redazione del Popolo d’Italia (lui appena tornato dal Manzoni dove aveva assistito, ma stavolta con Rachele ed Edda, al Cigno), dopo le pressanti richieste di una sua partenza per Roma avanzate dal prefetto di Milano, Alfredo Lusignoli. E, per la terza volta, a mezzogiorno del 28 ottobre, quando al giornale telefonò da Roma il generale Cittadini. Margherita e Arnaldo insistevano, ma lui niente. «Nero su bianco» disse secco secco, «che mi si mandi un telegramma». Il telegramma arrivò poco prima delle 13: «Sua maestà il re la prega di recarsi al più presto a Roma desiderando darle l’incarico di formare il ministero. Ossequi. Cittadini». Mussolini (me lo raccontò lei a Cavallasca, aprile 1961) si alzò dalla scrivania e voltosi al fratello Arnaldo disse con voce rotta: «Se a i foss’è bà, se ci fosse il babbo». Quella sera stessa, sulla Lambda di Crespi, Margherita lo accompagnò in stazione al direttissimo 17 con cui lui avrebbe portato al re «l’Italia di Vittorio Veneto».
Quando Mussolini diventò primo ministro, già totalitario duce in pectore, i loro incontri non si diradarono. Margherita, trasferitasi nella capitale in Corso d’Italia 19 (da anni viveva ormai separata dal marito che morirà nel 1924), andava a trovarlo spesso. Sia nella casa di lui in via Rasella (naturalmente prima dell’arrivo di Rachele), dove la figlia di Margherita giocava con il leoncino Italia, appena regalato al Duce, sia a Palazzo Chigi. Per discutere con lui – la scusa era questa – il sommario di Gerarchia, la rivista che le era stata affidata, e che diresse non senza abilità.
Nel ’24, con una prefazione a firma Latinus, Mussolini lanciò un libro di lei, Tunisiaca. E, subito dopo, in lunghe sedute, cominciò a narrarle la propria vita per il libro che avrebbe avuto per titolo Dux e che Arnoldo Mondadori, prevedendone il successo, accortamente si accaparrò. Il suggerimento al Duce di farlo scrivere a Margherita era venuto da Prezzolini, buon amico di entrambi, il che costituisce una sorta di garanzia oggi per chi voglia leggere Dux (edito nel 1926 e ripubblicato, sempre da Mondadori, nel 1982): dopo quelle di Torquato Nanni e di Prezzolini, una delle più informate biografie del primo Mussolini.
Le accentuazioni adulatorie che abbondano per le pagine («Romano nell’anima e nel volto, Benito Mussolini è una resurrezione del puro tipo italico, che torna ad affiorare oltre i secoli», «gli occhi sfavillano di un fuoco interiore appena frenato dalla volontà», «le mani si affilano nel gesto diritto e rapido» eccetera eccetera) non ne inficiano la sostanziale validità. Il taglio, intendiamoci, è quello che è, tra l’ingenuo e l’agiografico, e può fare sorridere, assieme però a tutto quello – e qui siamo pietosi – che scrissero su Mussolini, in quegli anni, personaggi ben più grossi della Sarfatti. Nel libro tuttavia le notizie ci sono tutte, compresi quelli che furono i tic culturali di Mussolini: da l’Unicum di Stirner a La Folla di Paolino Valera, da Nietzsche (acchiappato quel tanto che era possibile trascrivere su Il pensiero romagnolo), a Sorel, da James a Bergson, a Pareto. In una cosa la Sarfatti non esagera, e cioè quando afferma che Mussolini fu giornalista grandissimo; fu anche, va aggiunto, scrittore non disprezzabile, anche se è passato di moda per ragioni non propriamente letterarie; basta prendere fra le mani, per accorgersene, Il Trentino veduto da un socialista (1911) e soprattutto Vita di Arnaldo (del 1932, e che quindi non compare in Dux).
Superate le ingenuità, e le volute imprecisioni sul delitto Matteotti, Dux risulta nel complesso attendibile, come anche risulta dall’esame critico che ne fece Renzo De Felice nei primi due volumi della sua monumentale biografia mussoliniana. Il Duce pur vedendone i limiti contribuì molto a diffondere il libro, poiché capiva che era utile ad accreditare l’immagine sua di «uomo del destino», soprattutto all’estero (la prima edizione di Dux, ai primi del 1926, fu in lingua inglese).
Benché la Petacci non fosse ancora all’orizzonte, nuove furenti scenate di Rachele e una valanga di meno impegnative avventure galanti (il commesso di Palazzo Venezia, Quinto Navarra, racconta che ogni giorno «er duce se faceva la su’ bella zaganella») lo portarono a diradare i loro incontri. E nella primavera del ’32, dopo due ore di anticamera, la fece allontanare da Navarra senza riceverla. Lei, che era orgogliosa, si ritirò: ma senza mai smettere di far pesare sugli altri il fatto di essere stata «l’amica del capo».
Nel 1938, aiutata dal Cardinale Schuster (e, molto in sordina, da Bocchini, ovvero dal duce), Margherita sfuggì alle leggi razziali recandosi a Parigi, Lisbona, Barcellona e in Sud Aamerica. Rientrata nel ’47 in Italia, e ripresa la professione giornalistica che le era stata interdetta in quanto non ariana, subì nuove angherie, con eccessivo zelo postbellico alcuni non sapevano perdonarle di avere scritto Dux. Margherita ne sorrideva. Quando la incontrai nella sua villa Il Soldo a Cavallasca (dove morì di lì a poco, il 30 ottobre 1961) era una signora gradevole, di buone maniere e di buona cultura, con una retina che le tratteneva i capelli bianchissimi dalle pallide sfumature d’azzurro, e un piccolo anello d’oro, uno soltanto, portato al mignolo sinistro, un regalo, l’unico, di «lui». Mi parlò gradevolmente di arte e di storia, donandomi un suo non disprezzabile saggio su Gobineau. Prima di congedarmi mi raccontò alcune sue recenti peripezie, legate a Dux: l’unico libro – non osai dirglielo ma lei ne era consapevole – che continua, in qualche riga di enciclopedia, a farla ricordare.