Libero, 7 luglio 2019
Mangiamo meno pane
«Se non hanno pane, che mangino brioche!», avrebbe risposto Maria Antonietta ai sudditi di una Francia affamata e pronta alla Rivoluzione. Vera o falsa che sia la frase attribuita all’austriaca consegnata in tenera età alla corte parigina per diventarne Regina, sposando Luigi XVI, oggi è proprio il caso di dire che al pane si preferiscono le “brioche”. Anche in Italia, come in Francia, sono finiti i tempi in cui la popolazione con lo stomaco vuoto assaltava i forni, come Alessandro Manzoni ha ben descritto ne “I Promessi Sposi” a proposito della carestia del 1628 a Milano. E oggi, quello che da che esiste il mondo è stato considerato alimento essenziale alla sopravvivenza, da una parte viene relegato a bene di lusso in vendita in vere e proprie “boutique” del pane, dall’altro viene snobbato, eliminato dalle diete, sostituito, nella convinzione che faccia ingrassare data la sua appartenenza alla classe dei carboidrati, o che il suo glutine faccia male anche a chi celiaco non è. Ma che il pane non sia più un bene primario sono i numeri a dirlo: dal 1980 ad oggi si è persa il 40% della sua produzione artigianale e dagli 84 chilogrammi pro capite che si consumavano una volta, si è scesi a 31 chilogrammi a testa all’anno. Spendendo di più, ovviamente. A lievitare, infatti, nel corso degli anni è stato il prezzo: dalla materia prima a quello che finisce sulle nostre tavole, il costo aumenta di quindici volte. In ogni caso, gli italiani oggi spendono più in caffè che per una bella fetta di questo nobilissimo alimento, la cui riabilitazione è nella sua rivalutazione, in una nuova vita. Nuova vita che però cozza con una classe sociale dal portafogli con pochi spiccioli e senza carte di credito da esibire, che invece per comprare panini e pagnotte deve accontentarsi dei lievitati prodotti all’estero – dio solo sa con che tipo di grano -, precotti, surgelati, trasportati in Italia, scongelati, messi in cottura, e venduti nella grande distribuzione come pane fresco, appena sfornato. Per capire l’origine del grano bisogna scervellarsi, consultare i “libroni” su cui i supermercati hanno l’obbligo di scrivere la storia di ciò che si vende, e che consultare equivale un po’ a studiare un trattato di diritto. I più non ci pensano nemmeno a farlo, e mangiano un pane dalla qualità dubbia. Del resto, entrare nei moderni forni, molto di moda a Milano, per esempio, che hanno come obiettivo il ripristino della tradizione e dei grani antichi italiani, equivale un po’ ad entrare in una gioielleria. Per un chilo di pane si può spendere fino a otto euro. Otto, non due o tre, ma otto.
BENE DI LUSSO
Ovvio che il pane diventa un bene di lusso, alla portata di quei pochi ricchi che ancora non sono diventati vittime della frase “io il carboidrato proprio no”. Una via di mezzo non c’è. Se non al Sud, dove per un chilo di pane, buono se non ottimo, si sborsa da 1,90 a 2,50 euro. Ed è tutta una questione di chicchi, come ieri ha fatto notare la Coldiretti in occasione della Giornata nazionale del grano festeggiata a Milano con una trebbiatura a ridosso del Castello Sforzesco. In Italia, denuncia l’associazione, negli ultimi dieci anni è scomparso un campo di grano su cinque. Tradotto vuol dire che quest’anno saranno raccolti sette miliardi di chili di grano coltivati su oltre 1,8 milioni di ettari. Impietoso il paragone con dieci anni fa, quando gli ettari erano 2,3 milioni. E impietosi sono pure i danni economici in termini di occupazione e ambiente che mezzo milione di ettari di terra “persa” ha generato. Terra persa pure per l’abbandono dei campi, per la cementificazione, per il “contributo” degli attacchi degli animali selvatici che sovente distruggono i raccolti agricoli e per le aziende costrette a chiudere perché affogate dalle tasse in costante lievitazione. Certo, c’è da dire che, laddove possibile, è aumentata la qualità del grano coltivato, proprio in funzione di quella ricerca tipica italiana che ha spinto molti coltivatori a virare verso la riscoperta di grani antichi per la produzione di pasta e pane 100% made in Italy di qualità. Nel giro di due anni, infatti, le superfici coltivate sono passate dai mille ai seimila ettari.
FARINE RICERCATE
Chi non ha mai sentito parlare della bontà delle farine Senatore Cappelli, della varietà Timilia, Saragoilla? Prodotti “elementari” e per questo preziosi e costosi. A differenza dell’invasione di grani in arrivo dal Canada e a cui l’Italia è costretta ad abituarsi grazie all’accordo (dai più ritenuto scellerato) di libero scambio (CETA) che vuol dire portare sulle nostre tavole prodotti dalla materia prima trattata con glisofato in preraccolta. Modalità vietata in Italia dove è il sole a maturare il raccolto. Soltanto nei primi tre mesi del 2019, le importazioni sono aumentate del 600%. Così il lavoro dei nostri coltivatori «rischia di essere vanificato dai bassi prezzi riconosciuti ai coltivatori a causa delle speculazioni e delle importazioni dall’estero di prodotti che non rispettano le stesse regole di sicurezza alimentare e ambientale vigenti da noi», spiega la Coldiretti. In mancanza di soluzione, ci toccherà cantare a squarciagola “che ne sai tu di un campo di grano...”.