il Fatto Quotidiano, 7 luglio 2019
Intervista a Adriano Aragozzini
Tutto nasce da un gesto intimo. Racconta Adriano Aragozzini: “Anni 60, Gino Paoli rilascia un’intervista: rarissimo. La giornalista domanda: ‘Cosa fa prima di un concerto?’. E lui: ‘Una sega’. Vengo a saperlo, e quando lo incontro gli pongo lo stesso quesito. Scoppia a ridere, diventiamo amici, e poco dopo mi chiede di seguirlo come manager. Accetto”.
Adriano Aragozzini è così. Visionario, arrembante, goliardico e spregiudicato; amato, temuto, detestato, per certi toni un Howard Hughes nostrano, anche lui appassionato di aerei (“ne ho posseduto uno”), di donne (“sono stato con Tina Turner, ma anche con Miss Mondo”), di imprese e fughe clamorose (“in Argentina con la Lollobrigida abbiamo rischiato di brutto”). Per molti lui è Sanremo, eppure ha guidato il Festival per cinque edizioni e dal 1989, ma lo ha rivoluzionato (“ho tolto il playback”). Quando racconta si diverte, e quando si diverte ride, con tutto il corpo, fino a sollevare i piedi da terra e raggiungere una posizione quasi fetale. Diventa serio solo al nominare Gianni Morandi: “Non ho alcuna stima di lui, è il peggio”.
Ma come, Gianni Morandi?
La gente non sa, io gli sono stato vicino per molti anni: lo conosco bene. Però una volta in Giappone ci ha causato una risata da sentirsi male.
Dica…
Con Fidenco e altri eravamo in un posto con piscine di acqua bollente. Impossibile bagnarsi se non con moderazione. Arriva lui, inconsapevole, e con i suoi modi grossolani si tuffa. Silenzio generale squarciato dalle sue urla di dolore: ha impiegato minuti prima di riacquistare una respirazione normale (pensa). Mentre Dalla è stato un grandissimo, ma l’ho rifiutato.
Errorissimo.
Purtroppo mi sono fidato dell’apparenza, e quando ho visto questo tipo basso, peloso, e un po’ pelato, l’ho derubricato a flop. Stesso errore con Renato Zero.
E due.
Mi venne a trovare in ufficio su indicazione di Patty Pravo. Mi trovai davanti un ragazzone vestito di nero, con i capelli lunghi: invece di accomodarsi come tutti, si sedette sulla spalliera di un divano meraviglioso, con i piedi sui cuscini. “Cocco mi vuoi?”. Finì lì. Dopo pochi mesi aveva venduto un milione e mezzo di dischi (suonano al citofono, si alza, va in cucina, prende the freddo, torna e sposta gli oggetti dal tavolo. Casa è piena di ricordi, immagini, ninnoli: vita e carriera lo circondano. Prende una scatola d’argento).
Cos’è?
Me l’ha regalata Amir-Abbas Hoveyda, allora primo ministro iraniano, fucilato pochi giorni dopo averlo salutato.
Come mai era lì?
Organizzavo i concerti, in quell’occasione di Patty Pravo; in Iran ho portato tutti, da Iva Zanicchi a Modugno.
Sempre tutto liscio.
Mica tanto, con i The Four Kents qualche problemino c’è scappato.
Quanto “ino”?
Erano quattro ragazzi di colore, enormi, muscolosi. Li mando, dopo una settimana chiamano: “Non ci pagano”. “Tranquilli, ci penso io”. “Vogliamo i soldi”. “Domandateli con molta cortesia”.
Così non è stato…
Macché, fino a quando l’organizzazione locale li mette in contatto con un piccoletto. Loro non capiscono e rispondono, male. Il piccoletto li ha stessi tutti. A schiaffoni. Mi hanno chiamato quando si sono ripresi: “Aiuto, è arrivato un diavolo!”.
Sembra una barzelletta.
Un’altra volta sono a Cannes con Sergio Bernardini (proprietario de La Bussola) per il Festival dell’editoria. La sera andiamo al Casinò, con noi un italiano bassino. Arrivano sette inglesi, non ricordo il motivo ma iniziano a discutere con il piccoletto.
Altra rissa.
Incredibile, da solo li ha distrutti; ma il punto è un altro: nella lotta si era stracciato una manica della giacca, l’avevo raccolta e portata in albergo.
Quindi?
La mattina dopo scendo nella hall e trovo Bernardini: “Il piccoletto lo hanno ammazzato. Stanno cercando chi ha preso la sua manica”. Torno in stanza, chiudo al volo la valigia e via verso l’aeroporto; lì incontro Fred Bongusto, gli spiego il problema, e lui: “Ma che dici? Questa mattina era a colazione con me!”.
Eh?
Uno scherzo di Sergio.
Si è mai vendicato?
Ovvio. Organizzo il concerto di Tina Turner a La Bussola, ma il giorno stesso fingiamo una lite e Tina se ne va.
La Turner sua fidanzata.
Di una simpatia unica; comunque Bernardini viene da me: “Devi recuperarla”. Corriamo da lei, mi vede, sta per ridere, io mi preoccupo, invece inizia a urlare e quasi mi picchia. Sergio distrutto se ne va. Alla fine siamo arrivati alla Bussola e mentre lui era sul palco per annunciare il forfait, Tina inizia il concerto.
Bruno Voglino sostiene…
Chi?
Voglino, ex Rai Tre.
Grande amico mio. Anche lui vittima di uno scherzo.
Eccoci.
Partiamo in aereo con Nicola Di Bari. Il giorno prima mi ero messo d’accordo con un mio collaboratore: “Chiama in aeroporto, e fingi un grave problema per Voglino”. Così è. Arriva la hostess, gli spiega, lui scende. Noi partiamo.
Insomma, Voglino parla della fragilità dell’artista.
Penso a Modugno, famoso nel mondo, trent’anni di collaborazione e un’amicizia vera: prima di cantare impazziva, si emozionava, soffriva.
Avete mai discusso?
Tutti i giorni, ma blandamente; comunque se il teatro era pieno, era merito suo, se era vuoto colpa mia.
Insomma, fragili.
Tranquillizzarli è un lavoro, faticoso, e dopo un po’ di anni non è possibile continuare: oggi non sarei in grado, non ho più quel sistema nervoso.
Basta.
Tempo fa mi chiama Gino (Paoli) e mi chiede di seguire la Vanoni. Ho retto per poco.
Come mai?
Un giorno si fa ricoverare dal professor Cassano (psichiatra). Da lì mi chiamava tutte le notti per dirmi: “Perché non mi vieni a trovare?”. Ed ero pure sposato da poco.
Risposta?
“Sono il tuo manager”.
Duro ma giusto.
Una volta uscita la raggiungo in una villa affittata per incidere un album, e trovo la dimora ricoperta di materassi. Con lei c’era Mario Lavezzi.
I materassi?
Sì, per insonorizzare (ci ripensa). I materassi di casa!
Con Paoli era legato.
Insieme abbiamo passato anni veramente belli e intensi. Condiviso tutto (inizia a ridere). Una sera mi dice: “Andiamo da Ornella, si è sposata da poco”. Raggiungiamo la villa. “Aspetta, entro un minuto”. Quel minuto diventa l’intera notte, ogni tanto citofonavo ma non rispondevano. Ero tra il disperato, il preoccupato e l’incazzato. Alle sei esce dal cancello. “Che scopata”.
Cosa serve nella vita?
Il culo è fondamentale.
E poi?
Carattere e simpatia. Anche se suscito pure antipatia. Quando mi hanno assegnato Sanremo scattò una campagna stampa micidiale, passavo da dilettante, mentre avevo otto uffici in Sudamerica, a Los Angeles e a New York.
Alto livello.
A Los Angeles mi rappresentava Maddalena Mauro, agente di Gina Lollobrigida…
Con la Lollo siete amici?
Sì, e con me ha guadagnato tanti soldi; quando arrivavamo in Argentina accadeva di tutto: i generali che impazzivano e volevano trombarla.
L’hanno mai fregata?
In Sudamerica capitava spesso, lo mettevo nel conto, e a me è andata meglio che ad altri: ero l’unico a portare italiani.
Nessuna concorrenza.
Se qualcuno ci provava, gli bloccavo il mercato.
Solo lei.
In Sudamerica Nicola Di Bari era una star assoluta, quando atterravamo la televisione trasmetteva in diretta l’evento, al grido: “Arriva il cantante più brutto del mondo ma con la voce più bella del mondo”.
Proprio Nicola Di Bari?
Quando l’ho preso era completamente finito, talmente finito che l’unica condizione pretesa da lui per firmare il contratto è stata quella di saldare l’affitto di casa.
Niente di che…
Con me nel 1969 è arrivato secondo a Sanremo e primo nel 1970 e 1971. Poi Canzonissima davanti a Massimo Ranieri.
Tripletta.
Mi accusarono di imbrogli.
Insomma, Di Bari…
Prima dell’arrivo di Julio Iglesias veniva considerato un Dio; Billboard gli pubblicò una pagina intera: “È il fenomeno del Centro e Sudamerica”. Eppure non scriveva canzoni, l’unica sua è di merda.
Sempre duro ma giusto.
Ha mai ascoltato Zapponeta?
No.
È il nome del suo Paese natale. Prima in classifica in tutto il Sudamerica.
Così brutta?
Orrenda.
Quindi?
Non vincevamo più Sanremo, così inventai un escamotage che ci regalò altri sette trionfi: prima del Festival ascoltavo i brani, prendevo i diritti in spagnolo di quei quattro o cinque papabili per la vittoria, traducevo il pezzo e Nicola lo incideva. Il gioco era servito.
Felici gli interpreti originali…
Una mattina mi chiama Peppino Di Capri, urla: “Cosa stai facendo?”. “Non capisco”. “Canto un grande pezzo e qui mi dicono che è di Nicola?” Anche Ranieri mi ha evitato per anni.
Hanno parlato di lei come finanziatore dei regimi del Sudamerica.
Stupidaggine: a quelli i soldi li portavo via, anche infilando i contanti nelle mutande e nei reggiseni della Lollo.
I servizi segreti l’hanno contattata?
Mai.
Massoneria?
La odio. Sono il mio contrario mentale. E non avevo tempo da perdere.
Tempo è denaro.
A 21 anni andavo ogni mercoledì in Venezuela e a Roma avevo già una villa con piscina; un giorno venne mio padre in ufficio, allarmato: “Mi spieghi da dove arrivano i soldi?”. Ho tirato fuori i registri.
La sua vera svolta?
Proprio a 21 anni quando ho conosciuto per caso un agente che cercava star italiane da portare nello show di Renny Ottolina, il Mike Bongiorno del Venezuela.
E…
Con Renny ho lavorato per anni, poi è morto in un misterioso incidente aereo quando ha deciso di candidarsi alla presidenza del suo Paese. Il Sudamerica è così.
Ha mai avuto paura?
Solo una volta, per colpa di Mal: atterriamo in Venezuela e in aeroporto troviamo duemila persone. Una situazione folle, con le donne che lo aggredivano pur di dargli il numero di telefono; la sera, alla fine dello spettacolo, accade la medesima situazione, ma nel camerino. Mal si scoccia, le caccia, una signora insiste, ed entra di nuovo. Il segretario la solleva e la butta fuori. Errore clamoroso.
Chi era?
La moglie del colonnello dei servizi segreti. Dopo dieci minuti il proprietario del locale viene da me, pallido, sudato: “Cosa è successo? Sta arrivando l’esercito, porti via Mal”. Corro da lui e lo spedisco in albergo, in una stanza differente dalla sua; poco dopo si palesano i militari, in borghese, con il mitra in mano, mi interrogano. Bluffo.
Conclusione?
Per giorni i servizi mi hanno seguito, Mal nascosto, fino a quando sono riuscito a farlo salire su un aereo.
Ha mai avuto una storia con una delle sue artiste?
Quasi mai, giusto Tina Turner; però sono stato con Miss Mondo, nonostante fosse la donna di un grosso impresario, uno da aereo privato.
Come ci è riuscito?
Lui era spesso ubriaco, e se uno beve così poi a letto funziona poco; poi giocava al Casinò: nel frattempo invitavo lei in Italia per dei provini.
Un classico.
Con le donne ho sempre mantenuto la parola, a volte pagando perché non riuscivo nelle mie intenzioni.
In che senso?
Fingevo ingaggi, in realtà ero io ad allungare i soldi.
Conta più il potere o i soldi.
Con il potere arrivi ovunque.
Lei ha il potere?
Un tempo, oggi con internet è impossibile, tutti possono ingegnarsi, basta un’email spedita da casa.
E Patty Pravo?
La svolta è arrivata grazie alle foto nude apparse su Playboy, pagate una cifra pazzesca.
Era già molto famosa.
In quella fase non andava più in televisione, e la casa discografica la obbligava a cantare canzoni francesi pallosissime. Non vendeva. Rovinata. E invece con me ha inciso Pazza idea, e neanche era convinta: “Troppo commerciale”.
Storia con la Pravo?
C’è un proverbio: “Dove tiri fuori il pane non tirare fuori il pene”.
Mal.
Potevo lanciarlo sul mercato statunitense, aveva inciso un pezzo entrato in classifica e aveva una serie di concerti a Las Vegas; ha rinunciato al momento di partire: “Non posso, ho paura”. “Di cosa?”. “Se vado via la mia fidanzatina mi mette le corna”.
Perfetto.
Alla fine la fidanzatina lo ha tradito e mollato; oggi avrebbe potuto vivere a Beverly Hills. Sta a Pordenone.
Gli artisti e i soldi.
Alcuni oculati, ma spesso sono una tragedia come Patty (ricca risata). Un giorno fisso un appuntamento con Andy Warhol per parlare di un film da girare. Lei è contenta di conoscerlo, ma quando lui varca la porta di casa, Patty si trincera in un mutismo assoluto. Dopo un’ora termina l’imbarazzo, Warhol va via. Appena esce, la Pravo accende una candela e inizia a correre come una matta per casa: doveva cacciare via gli spiriti cattivi.
L’artista è riconoscente?
No.
Lei è mai triste?
Spessissimo.
Le capita di stare solo?
Molto spesso.
E come si trova?
Preferisco la compagnia, ma non ci sto male (cambia tono); da pochi anni mi sono reso conto di ciò che ho combinato nella vita, quando ero al top non capivo.
Adrenalina.
Ho corso proprio tanto, la prima vacanza me la sono concessa a 39 anni. Ora ho passato gli ottanta, è stato un attimo.
(Canta Anna Oxa: “La mia vita è questa qua, che un’altra dentro non ci sta”).