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 2019  luglio 07 Domenica calendario

Le bombe sotto Pompei

Sempre fuoco. Sempre fiamme. È il destino di Pompei: prima il Vesuvio, poi le bombe della guerra. Ma qui il passato riemerge sempre. Così, insieme con i resti romani più famosi del mondo, adesso rischiano di tornare alla luce gli ordigni sganciati dalle forze alleate nel 1943: sette, forse addirittura dieci bombe inesplose che sono sottoterra, nella zona archeologica dove si deve ancora scavare. Nessun pericolo per i turisti: sono gli scalpelli degli studiosi che rischiano di incontrare le bombe sganciate dai B17. E non solo: potrebbe esserci altro, come proiettili di cannone e bombe a mano.
Un segreto finora rimasto inviolato. Racconta Antonio De Simone, archeologo e professore straordinario dell’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli, un volto conosciuto anche per aver accompagnato, negli anni, Alberto Angela nelle sue puntate tv su Pompei (e non solo): “Esiste un’ampia documentazione relativa ai bombardamenti subiti da Pompei. L’Aerofototeca Nazionale dell’Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione, presso il ministero dei Beni e delle Attività culturali, conserva le immagini prodotte dagli Alleati per scopi di ricognizione durante la ‘Campagna d’Italia’ del 1943-1945. Strisciate aeree, rapporti ufficiali… ma non c’è nulla di preciso, nessuno studio specifico riguardo alla zona in questione. Io stesso nella mia esperienza a Pompei ho trovato ordigni non segnalati…”. De Simone prova a scherzarci sopra, con quel suo spirito così partenopeo: “Scavavamo con tutte le cautele, mica ci interessa di avere una borsa di studio in memoriam… però che sorpresa! Eravamo lì con i nostri scalpelli, le pale, a sollevare piano piano un pugno di terra per volta e all’improvviso sotto i nostri piedi ci siamo ritrovati le bombe. Due. Una già esplosa, ridotta in frammenti. L’altra, purtroppo, no. Era bella intatta… era il 1986”.
C’è ancora storia quindi sotto la terra nera di Pompei. E non soltanto perché dei 66 ettari dell’area archeologica soltanto 44 sono stati scavati: nei 22 ettari in attesa di essere scoperti – molti parlano dell’esistenza di un’altra Pompei nella Pompei – non si nascondono soltanto i segreti dell’antica Roma, ma anche quelli di un passato ben più recente. Un problema – quello degli ordigni inesplosi a Pompei – rimasto sepolto per decenni, ma oggi, forse, qualcosa può cambiare. Con il progetto “Grande Pompei” (105 milioni di investimenti, il 20 per cento a carico dello Stato e l’80 sulle spalle della tanto vituperata Unione Europea) che, racconta l’architetto Antonio Irlando, un uomo che a Pompei e alla sua tutela ha dedicato anni di vita, “ha permesso di avviare un piano per abbassare la pendenza dei fondi della zona non scavata, che, proprio perché soggetta a un forte dislivello, è a rischio idrogeologico”. La Soprintendenza nei mesi scorsi ha prodotto una mappa chiave, allegata proprio alla gara per la “Grande Pompei” relativa ai “Lavori di messa in sicurezza dei fronti di scavo interni alla città antica e mitigazione del rischio idrogeologico delle Regiones I-III-IV-V-IX”. Parliamo, quindi, soprattutto dell’area non scavata, quella che nella mappa è ancora grigia (a pagina 8-9, ndr). Sul documento della Soprintendenza sono censite, nella zona visitabile e aperta al pubblico, quasi cento bombe – 96, per la precisione – con la localizzazione dei punti di caduta: 96 bombe, su 165 sganciate in tutto dagli alleati, che colpirono e danneggiarono strade, ville, muri. Spiega De Simone: “Sono relative a esplosioni per cui è stata ritenuta necessaria un’attività di documentazione dei danni provocati con rilievi o fotografie. Parliamo, tra l’altro, della via dell’Abbondanza, della Casa di Trebio Valente, delle Officinae Tegentiae Graphici e della Schola Armaturarum”. Ma c’è, appunto, la grande “macchia” grigia dell’area ancora da scavare: dove sono caduti qui gli ordigni? Come e dove è possibile localizzarli? Su questa zona sono state sganciate circa 70 bombe: da 7 a 10, secondo le stime, ancora inesplose.
Non si può più fare finta che quegli ordigni non ci siano. Non si possono lasciare all’oblio. C’è da salvaguardare prima di tutto la vita di archeologi e operai. E poi, ovviamente, i reperti ancora sotterrati. Senza contare il timore, del tutto ingiustificato a detta degli esperti interpellati dal Fatto, che si potrebbe diffondere tra i turisti. Ma che cos’ha nascosto davvero la guerra sotto il suolo di Pompei?
“Sia risparmiata violenza cieca e brutale che minaccia di distruggere Pompei, monumento sacro dell’umanità civile”. Scriveva così il Soprintendente Amedeo Maiuri al ministero della Pubblica Istruzione, all’alba del 25 agosto 1943. Erano i giorni in cui il Paese andava in frantumi. Eppure a Pompei resisteva un Soprintendente. Quell’uomo capiva quanto le rovine romane fossero da salvare, a ogni costo: proprio nel momento in cui l’Italia sembrava sul punto di non esistere più bisognava salvarne almeno l’anima. La notte prima gli Alleati avevano sganciato su Pompei un uragano di bombe: per una fatale coincidenza, il 24 agosto, lo stesso giorno in cui era iniziata, nel 79 d.C., l’eruzione che nell’antichità avrebbe devastato Pompei e le altre città vesuviane. Così alle ore 22,30 del 24 agosto 1943, la distruzione si ripete. È il racconto, così vivo e caldo, di Maiuri: “La prima tragica incursione è avvenuta la sera del 24 agosto alle 22,30… una bomba di medio calibro ha colpito l’angolo nord orientale del Foro, dinanzi all’arco di Druso… altre hanno ridotto a un cumulo di macerie la zona di Porta Marina”. Furono tre le bombe che quella notte caddero sull’area archeologica. Ma era soltanto l’inizio: a quel bombardamento ne seguirono altri. Il Comando militare alleato era convinto che tra le rovine si accampasse un’intera divisione corazzata tedesca. In quelle settimane di confusione totale, come ha scritto l’archeologo e storico spagnolo Laurentino Garcia y Garcia, nel suo Danni di guerra a Pompei. Una dolorosa vicenda quasi dimenticata, ben 165 bombe caddero su Pompei – secondo la piantina “Pompei Bomb damage” compilata dagli stessi americani nel 1943 – distruggendo, tra l’altro, più di 1.300 reperti ritrovati in 200 anni di scavi, e persino il vecchio museo pompeiano ideato da Giuseppe Fiorelli.
Ma chi ci pensava allora a Pompei, alle case degli antichi Romani, quando quelle dei napoletani finivano in polvere? Erano i mesi in cui a Napoli ogni giorno suonava l’allarme anti-aereo e la città era la seconda in Italia più colpita dagli ordigni. Del resto il piano di Franklyn Delano Roosvelt era chiaro, come scrisse in una lettera a Winston Churchill: “Noi dobbiamo sottoporre la Germania e l’Italia a un incessante e sempre crescente bombardamento aereo. Queste misure possono da sole provocare un rivolgimento interno o un crollo”. E così fu a Napoli: 181 raid tra il 1942 e il 1943. Tra 20 e 25mila morti, ma nemmeno le Fortezze Volanti americane piegarono la vitalità dei napoletani: la sirena e si correva nella ‘sotterranea’, come veniva chiamata la metropolitana. Poi di nuovo fuori, tra macerie, ma anche ristoranti e cinema rimasti ostinatamente aperti.
E chi ci pensava alle rovine romane! E a Pompei, che ha protetto gelosamente per secoli la città distrutta dall’eruzione del Vesuvio, e altrettanto ha fatto per quel bombardamento? Del resto in quel periodo c’era un Paese da ricostruire. E da liberare dalle bombe non esplose. Secondo gli studi di quegli anni, sulla penisola caddero un milione di bombe. Era il 1947 quando gli americani consegnarono uno studio (“The United State strategic bombing survey”) alle autorità dei Paesi europei con i dati e le tabelle ricavate dai rapporti delle loro truppe. Ecco cos’è stata anche la guerra: 378.891 tonnellate di bombe piovute sulla Penisola. Ma non tutte per fortuna esplosero: secondo un studio dell’Ordine degli Ingegneri di Mantova del 2018, sono l’8-10 per cento gli ordigni inesplosi. Quindi circa 37.900 tonnellate – significa 80-100mila bombe – rimasero lì, nella pancia dell’Italia. A volte introvabili, altre pronte a emergere e fare altri morti. Le campagne di risanamento cominciate nel 1946 non bastarono. Valutazioni ufficiali è impossibile averne, ma secondo le stime ufficiose, condivise dal Genio militare, circa il 60 per cento delle bombe sganciate sono state rinvenute. Come dire che sotto i nostri piedi restano – e magari resteranno per sempre – 15mila tonnellate di bombe d’aereo inesplose. Del resto, secondo gli ultimi dati disponibili del ministero della Difesa, nel 2012 in Italia sono stati rinvenuti 9.177 ordigni, di cui 81 bombe d’aereo.
Ma il destino di Pompei è anche di venire alla luce, di essere scavata. Nel 1944 è un pilota inglese che scopre una bomba inesplosa sotto il selciato stradale, vicino alla Casa degli Epigrammi. Poi altri ritrovamenti, nel 1952 accanto a Porta Capua, nel 1954, nel 1959 un colosso da quattro quintali vicino al Tempio di Venere, poi nel 1961 e tre anni dopo vicino alla torre di Mercurio. Gli ultimi ritrovamenti sono del 2017. Così la storia torna in superficie, insieme con le bombe. “Non c’è alcun pericolo per i visitatori, bisogna essere chiarissimi per evitare qualsiasi allarmismo”, premette un archeologo che non vuole essere citato ed è impegnato a realizzare uno studio, “perché le bombe di cui parliamo sono concentrate nell’area non aperta al pubblico”. Già, quel tesoro che l’Italia finora, anche per mancanza di fondi, ha lasciato che fosse protetto dalla terra. Ma di quante bombe si tratta? Rapporti ufficiali non ce ne sono ancora. Bisogna affidarsi alle stime degli studiosi: su 165 bombe lanciate sulla città, è lecito pensare che tra 12 e 16 siano rimaste nella terra. Escludendo gli ordigni scoperti e disinnescati nel corso degli anni, la zona non scavata – e non censita – dovrebbe tenerne in pancia, sottoterra, da sette a dieci.
E qui si sono cominciati a diffondere i timori. Finora rimasti coperti sotto uno strato di terra, come le bombe e i reperti: “Le ispezioni archeologiche e la bonifica delle bombe seguono tecniche diverse – descrive De Simone – chi cerca e disinnesca gli ordigni procede con ‘splateamenti’, cioè scassi del terreno, un procedimento molto più invasivo di quello che usiamo noi archeologi”. Che fare? Ora che l’Italia dal 2012 si è dotata di una disciplina che prevede nuove e maggiori tutele in materia di scavi in presenza di ordigni bellici,
e la storia delle bombe a Pompei sta riaffiorando in superficie, come agire?
Paolo Orabona è un ingegnere che da quarant’anni gira l’Italia, e il mondo, per liberare i cantieri e gli scavi dalle bombe: “All’epoca in cui nel nostro Paese si realizzavano grandi opere, in media si trovavano 100mila ordigni all’anno (di cui 700 circa, le bombe di aereo). Soltanto scavando sull’Appennino, all’epoca dei lavori per il tratto autostradale Firenze-Bologna, abbiamo rinvenuto decine
e decine di casse di munizioni”. Ma Pompei?
“Non esistono studi esaustivi. Non abbiamo idea di cosa veramente ci sia là sotto. Potrebbero esserci bombe di aereo, ma anche altri tipi di ordigni, come proiettili di cannone. E questi non sono nemmeno censiti nella carte dell’esercito americano”. È un rebus perché, come racconta Orabona, “capitava che aerei a fine missione si liberassero del loro carico, per tornare alla base più ‘leggeri’, sganciando bombe non innescate al di fuori della zona operativa”. E non ci si può permettere di rischiare perché “alcune provocano devastazioni nel raggio di centinaia di metri. Per non parlare del fatto che nelle Guerre mondiali ci fu chi lanciò bombe a innesco chimico, come quelle che nel porto di Bari causarono centinaia di morti”. E dunque, che fare: lasciare un terzo di Pompei all’oblio per evitare rischi, oppure bonificare rischiando di distruggere le rovine non ancora emerse? “È vero, le tecniche di bonifica bellica sono potenzialmente distruttive. Si può però procedere salvaguardando la sicurezza, prima di tutto, e i tesori. Ormai i metal detector permettono di individuare anche un chiodo fino a un metro di profondità. Noi procediamo così, metro per metro: prima l’analisi, poi la perforazione. Solo così potremo salvare i resti romani ed eliminare le bombe. Senza rischi”.
Non la troverete sulle guide, non ce n’è traccia su Wikipedia. Oltre 3,6 milioni di persone ogni anno visitano la città dei morti, ma quasi nessuno conosce quella dei vivi. La Pompei che non esiste.
È un confine, un simbolo, il cancello di Porta Marina: di là, la grandezza della Roma di ieri; di qui, l’eterno affanno del nostro Meridione. Chiedete ai turisti di mostrarvi le loro fotografie, non rimane nemmeno uno scatto da questa parte delle sbarre. Al massimo un click, niente più, davanti al suq di bancarelle senza ordine, senza gusto: statue di fauni – una volta almeno opera dei fabbri della zona, oggi pure loro made in China – accanto a riproduzioni di Cristiano Ronaldo; ma soprattutto falli di legno di ogni grandezza, grembiuli da cucina con il torace del David e un membro dalle dimensioni non proprio michelangiolesche, perché questa, strilla Antonio dal suo scranno, “era la città dell’amore”. E chissà se quei souvenir siano la caricatura di opere d’arte di ieri o la rappresentazione involontariamente fedele dell’oggi.
Giusto il tempo di attraversare la strada e correre veloci verso il pullman che aspetta a motore acceso. Di infilarsi nella stazione ferroviaria. Eccolo il biglietto da visita di Pompei: binari invasi da erbacce, cavalletti di lavori in corso. Un atrio che ti inzuppa i sensi di colori, strilli, odori, dove, zaino in spalla, si incrociano la scolaresca tedesca e il sikh con il turbante. Ad assediarli sedicenti esperti di storia che propongono visite guidate e si contendono la preda con venditori non ufficiali di biglietti (costo dell’ingresso, 15 euro).
Il passato, non c’è altro che il passato. Dal presente bisogna fuggire, al massimo ci si può concedere un panino seduti sul marciapiedi lambito dai rifiuti. Si può arraffare un menu non esattamente ‘vesuviano’ a base di hamburger e patatine fritte. Le due città si toccano per un istante al confine del cancello di metallo: poi via di corsa verso Napoli, la Costiera Amalfitana o l’aeroporto. E addio. Sarà per questo, poi, che quando è arrivato un imprenditore tedesco e ha proposto di costruire una ruota panoramica alta sessanta metri con vista sugli scavi in tanti hanno detto sì. E c’è voluto il ministro della Cultura, Alberto Bonisoli, per fermare l’effetto luna park: “Non se ne parla proprio”. Stop.
Davvero stenti a trovarla la Pompei dei vivi. Pare soltanto l’abbaglio d’asfalto della statale Tirrena, il groviglio dei cavalcavia e lo stridere della ferrovia. E poi case che stanno vicine, ma non ti sembrano un paese; strade che paiono non avere direzione, ma semplicemente proseguono dove trovano spazio tra orti, capannoni e abusi.
Ma aspettate, non è ancora questa l’“altra Pompei”. C’è molto altro. Seguite il campanile del Santuario, lì troverete il paese di oggi. Dimenticate le rovine, le Ville dei Patrizi. Le due città stanno accanto, quasi abbracciate, ma senza amore. Sono due mondi diversi. Tanto in una la vita emerge dall’assenza, dal silenzio delle stanze, quanto nell’altra brulica, spinge, rumoreggia.
Confluisce come un fiume verso il centro: il Santuario della Beata Vergine del Rosario di Pompei, che ogni anno richiama qui due milioni di persone (83 per cento sono italiani, e poi ci sono tanti polacchi). Un altro mondo rispetto a quello che visita la città romana. È nato tutto qui, non dalle rovine, questo comune che esiste soltanto dal 1928. E non c’entrano gli dei, ma soltanto la Madonna. Perché forse Dio non esiste più, ma ha pur sempre una madre. Poi vennero le vie, le case che riconosci non per lo stile, ma per quei colori chiari, mangiati dal caldo. Il Sud.
Un secolo, poco più. Prima erano solo terra nera, campi. Ma la storia da questa parte del confine non te la raccontano gli storici, gli archeologi. Devi andarla a raccogliere tra le bancarelle – rosari, crocifissi e, anche qui, statue di santi e calciatori – e i bar della via Sacra. “Pompei è nata da Bartolo Longo, quest’uomo oggi beato che nell’Ottocento a Napoli amministrava i beni della contessa Marianna De Fusco”, ti spiega davanti a un caffè Giancarlo Pascale, pensionato, che del passato di professore ha conservato il gusto del racconto, i gesti ampi delle mani. Bartolo, oggi beato, con la sua devozione per la Madonna, e forse anche per la contessa. Qui dove erano miseria – quella vera – e malattie, lui sognò un Santuario. Poi edifici immensi per gli orfani, arrivati da tutta la campagna vesuviana. Cresciuti e poi mandati per il mondo. “Bartolo – raccontano in paese, che sia storia o leggenda poco importa – nel magazzino di un rigattiere napoletano scovò il dipinto della Madonna del Rosario e lo portò qui una mattina su un carretto pieno di letame. E intorno a quella tela, liberata dai tarli e con i tratti ingentiliti con il ritocco di un pittore partenopeo, nacque una città.
Strano destino: famosa per un passato che non riesce a conciliarsi con il presente. Immersa nella periferia senza fine di Napoli, ma come se ci galleggiasse senza sprofondare. Qui la camorra, sarà forse per via della Madonna, non infila gli artigli con la stessa violenza che altrove (il Comune di Pompei fu sciolto per infiltrazioni nel 2001, nel 2005 toccò a Boscoreale e nel 2017 alla vicina Scafati).
“Pompei è una piccola Roma”, disse Vittorio Sgarbi che qui si candidò sindaco in una delle sue molteplici reincarnazioni politiche. Ma non soltanto per le rovine, “perché anche qui ci si divide tra soprintendenza, Vaticano e Comune”.
L’ha tenuta insieme la fede questa Pompei, come i rintocchi del campanile che scivolano sui tetti.
Era fatta di fede e mattoni Pompei. Ma mentre parli ai tavolini del Caffè Amato, senti ripetere le stesse domande: cosa è rimasto dietro le facciate dei collegi dove una volta crescevano centinaia di bambini? È frate Giuseppe Barbaglia che ti accompagna oltre il grande portone di legno dove la luce della strada diventa ombra e silenzio. È lui che ti precede negli interminabili corridoi dove senti risuonare i tuoi passi e ti pare di sentire ancora l’eco di conversazioni, giochi. Oggi nell’antico collegio non c’è più nessuno, interi piani lasciati alla polvere. Migliaia e migliaia di metri quadrati. E non è il solo caso, in questa città dove la città di Dio occupava più spazio di quella degli uomini. Proprio come a Roma, la Chiesa che arretra, da pastore di anime si fa anche pastore di turisti. Prendete l’Albergo del Rosario, nei pressi del Santuario: ci andavano i pellegrini, le gru stanno lavorando per trasformarlo in un hotel quattro stelle S, con tutti i comfort. Un investimento di 14,4 milioni del gruppo Diomira, sostenuto ampiamente da finanziamenti pubblici di Invitalia. Per non dire del seminario, una città nella città: palazzi, una chiesa, perfino una piscina lunga decine di metri per alleviare le fatiche dei religiosi.
Ma ora invece dell’acqua c’è terra. Nessuno sembra farci nemmeno caso, pare normale. E anche qui ecco fiorire progetti di recupero e trasformazioni in alberghi. Certo, potrebbe essere la svolta, finalmente l’abbraccio tra la Pompei dei turisti e quella degli abitanti. Ma potrebbero anche essere nuovi sprechi, proprio come lo scheletro dell’albergo costruito per i mondiali di Italia ’90.
I palazzi disabitati non si contano. Eppure a nessuno viene in mente l’idea, come suggerisce ancora Irlando, “di realizzare una scuola di restauro di reperti romani, un istituto di archeologia capace di attirare i ragazzi della zona creando competenze per garantire un avvenire”.
Non come i giovani disfatti dalla fatica e dal caldo che ti si parano davanti alla stazione promettendoti tour. Come i camerieri che si affacciano dalle porte di chioschi e ristoranti cercando di attirare i turisti mordi e fuggi.
Perché a Pompei i soldi non sono mancati. Di denaro ne è piovuto, ma è finito perso come l’acqua della Fonte Salutare – la fontana in pieno centro dove d’estate le famiglie allungavano la mano per bere l’acqua ferrosa – chiusa per l’inquinamento.
Così vedi i ragazzini giocare a pallone nelle piazze, nelle strade, in ogni angolo di cemento lasciato libero dalle auto. E pensare che di campi ce ne sarebbero eccome, vedi quello di Fossatello, uno dei tanti monumenti allo spreco della Campania: c’era il terreno di gioco, pure parte delle tribune e la cabina elettrica. Abbastanza, negli anni Ottanta, per organizzare un’inaugurazione, ricordano le cronache, alla presenza dell’onnipotente – all’epoca – Antonio Gava. Ma finì tutto lì, si giocarono solo alcune partite dei fantomatici giochi della gioventù. Oggi è soltanto abbandono ed erbacce.
Soldi e ancora soldi. Oggi tocca al progetto da 68 milioni di euro per eliminare quattro passaggi a livello, lungo la Circumvesuviana, e creare dei sottopassi. Ma la città è divisa, pesano i dubbi sull’utilità del progetto: a mancare è soprattutto la fiducia. E non bastano più le promesse, l’eterna occasione della nuova Pompei che vive accanto a un tesoro, ma se lo vede sfuggire tra le dita della mano.
Te lo dice anche Pietro Amitrano, commercialista che da due anni è sindaco della cittadina: “Abbiamo duemila posti letto tra hotel e bed&breakfast, molti alberghi si sono riqualificati e altri apriranno”. Eppure… “Eppure anche se abbiamo più di tre milioni di visitatori sono turisti mordi e fuggi. Gente che arriva con il sacchetto del pranzo fornito dagli stessi alberghi di Napoli”. Senza contare il Santuario.
Si sfiorano le due città, non si abbracciano. Lasciate che Irlando vi accompagni a vedere Villa Regina, proprio al confine con Boscoreale: al di là della rete le rovine della domus romana, i turisti francesi con la guida in mano. Di qua auto abbandonate, bambini che giocano a pallone in un prato spelacchiato. La vita si guarda dalla finestra, si raccoglie nel minuscolo bar nato spontaneamente in una stanza dei condomini; si cerca nei cerchi di sedie di plastica sistemate ai lati della strada come in un vicolo che invece non c’è. E non bastano gli assurdi tricolori appesi da chissà quale autorità ovunque lungo le strade; qui più che alle bandiere ci si affida alle statue di padre Pio messe a ogni angolo, in ogni giardino. Anche questa è Pompei. Il passato che emerge da sottoterra e il presente che si affaccia dai balconi: resta a guardare. Basta scendere una rampa di scale, arrivare tra le colonne della villa di Poppea, la moglie di Nerone, camminare lungo i bordi della piscina dove immagini l’Imperatrice fare i suoi bagni. Ma se alzi lo sguardo ecco il grattacielo che incombe, i motorini che sferragliano. Le vedette della camorra che annunciano la tua presenza, se superi il confine. È tutto lì, questione di sbagliare un incrocio, di svoltare a destra invece che a sinistra. Dalle stanze dipinte con i pavoni duemila anni fa, passi a strade che ti verrebbe da dire “sono in Africa”, e invece è Torre Annunziata. Italia.
Pompei della Villa dei Misteri, ma anche della Las Vegas fiorita proprio di fronte agli scavi. Appena fuggono i turisti ecco accendersi le luci sgargianti delle sale giochi: “Slot”, “bingo”, lampeggiano i neon. Il nuovo business della camorra che stringe sempre più il cerchio e da una macchinetta ricava migliaia di euro ogni giorno (fino a 14mila, dicono le inchieste). Non c’è più neanche bisogno della droga. Uomini e donne come ombre scendono dalle auto e si infilano nelle sale dove camminano camerieri con la cravatta troppo stretta e la camicia spiegazzata dal caldo. Si ritrovano qui le famiglie: Antonia, una madre secca secca con i due figli ormai uomini, tutti insieme a promettersi “questa è l’ultima” a ogni giocata. A ogni cartellina di bingo acquistata. Dai, è la volta buona, manca solo una crocetta, ma alla fine il numero non arriva mai e in venti minuti se ne vanno cento euro, un decimo dello stipendio da commessa. Le slot, come gli hamburger con le patatine davanti al cancello. “Basterebbe offrire quello che abbiamo, quello che siamo”, scrolla la testa Mario Falanga, mentre dal suo ristorante affacciato sugli scavi ti offre un piatto di pomodori più rossi e scintillanti di una Ferrari. E una mozzarella che ad affondarci il coltello zampilla latte. Già, basterebbe, e invece proprio accanto sventolano grembiuli con l’uccello del David.
Soltanto da lassù le vedi insieme, le due città e le due Italie, dagli ottantadue metri del campanile che domina la macchia degli scavi e la distesa senza forma, senza fine, dei condomini. A unirle, sullo sfondo, è soltanto il Vesuvio.