Tuttolibri, 6 luglio 2019
Intervista a Feby Indirani
Feby Indirani è una scrittrice spiritosa, molto. Ride di cuore quando le chiedi se crede che Dio abbia il senso dell’umorismo anche perché sì, lei, cresciuta nel più grande Paese musulmano del mondo, è convinta che ne abbia. Classe 1979, giornalista di formazione e raffinata narratrice di storie reali o immaginarie Feby Indirani è considerata una delle giovani promesse della letteratura indonesiana. Vive a Londra ormai, ma tiene un piede a Giacarta, la megalopoli asiatica orgogliosa di aver avuto tra i banchi di scuola Barak Obama ma anche sospettosa nei confronti dell’Occidente, da cui oltre alla libertà è arrivata la versione di un islam diverso, «arabo» e per niente disposto a ridere di sé.
Dopo la polemica sul disegno di Trump e Netanyhau il New York Times ha annunciato la sospensione dello spazio per le vignette. Come se la passa la satira nel mondo incupito dalla strage di Charlie Hebdo?
«La tensione su quanto riguarda la religione - o meglio, l’interpretazione della religione - è aumentata. Succede in tutto il mondo, compresa l’Indonesia, dove il tema è diventato scottante nel 2017, dopo il caso dell’ex governatore di Giacarta incarcerato per due anni per blasfemia. Credo però che ci si debba fermare. Lo dico da musulmana, nata e cresciuta secondo i valori dell’islam, lo dico dall’interno, dobbiamo rilassarci. L’umorismo può essere una medicina. L’Indonesia ha nel suo Dna la capacità di ridere di cose serie, l’ex presidente Gus Dur era famoso per le sue barzellette ma anche la principale organizzazione islamica del Paese, Nahdlatul Ulama, ha una vocazione alla battuta, allo scherzo».
Da dove arriva allora la nuova pesantezza che, a Giacarta come altrove, si respira quando si parla di Dio?
«L’islam indonesiano è diverso da quello europeo e arabo, è tradizionalmente più integrato con la cultura locale per cui capita per esempio di vedere figure religiose che si mescolano con danzatori e cantanti. L’Indonesia è sempre stato un ponte tra l’Occidente e il mondo musulmano asiatico ma da tempo ormai su questo ponte transita il messaggio wahabita diffuso da Riad, le nostre scuole coraniche sono oggi in gran parte finanziate dall’Arabia Saudita. Dopo il 1998, con la caduta di Suharto, il Paese ha conosciuto la democrazia ma la libertà ha fatto emergere anche tante voci prima silenziate tra cui quelle islamiste. A lungo abbiamo taciuto il problema per una sorta di rispetto verso la religione, i giornalisti sono stati timidi nel criticare il fondamentalismo quasi imponendosi un’autocensura. Ora però ci stiamo svegliando, abbiamo iniziato a preoccuparci, dal 2017 in poi non è più possibile far finta di niente».
Due anni prima c’era stato Charlie Hebdo. Cos’ha pensato quel giorno, da scrittrice molto spiritosa e da musulmana?
«Credo che il rispetto per le religioni, tutte, sia importante. Bisogna tenere conto di chi crede. Ma la criminalizzazione della blasfemia è una follia. Il rispetto va insegnato con la cultura non imposto per legge. I giornali devono poter pubblicare in libertà ma il lettore deve avere la medesima libertà di criticarli. Il diritto di parola non è diritto di offesa, il confine si costruisce con la negoziazione culturale».
È più spiritoso Dio o l’uomo?
«Secondo me Dio è spiritoso. È la mia interpretazione, per carità, ma c’è una lunga serie di personaggi a partire da Abu Nawaz che racconta di un islam capace di umorismo».
L’Illuminismo ci ha insegnato a separare la regione dalla politica. Non trova che invece di questi tempi la politica si stia religiosizzando un po’ dovunque?
«In Indonesia di sicuro, i politici hanno capito che la forza della religione, a prescindere da come venga utilizzata, è quella di commuove le persone, renderle parte di un’identità più ampia che diventa in qualche modo tribalismo. Ecco, i discorsi politici sono sempre più tribalisti, identitari, etnici, in qualche modo religiosi. In India questo si vede moltissimo ma sta accadendo anche in Indonesia: l’uso dei simboli rende più semplice la formazione dell’opinione pubblica e l’uso di simboli religiosi la rende manipolabile in modo emotivo».
Com’è stato accolto il suo libro in Indonesia?
«Quando è uscito, nel 2017, su Internet sono spuntate molte critiche, dicevano che non potevo prendere in giro la religione, che nella storia della maialina desiderosa di convertirsi all’islam per esempio c’era una messa alla berlina dell’alimentazione halal. Poi, per fare un esperimento, ho pubblicato alcune storie online e mi sono accorta che molti estimatori erano gli stessi che prima di averle lette le contestavano. Voglio dire che la prassi è diversa dalla teoria. La storia sull’uomo che vuole uccidere il muezzin perché non riesce a dormire non è blasfema, è la vita, capita a tutti di imprecare contro il richiamo alla preghiera. La fiction, diversamente dalla realtà, permette di astrarsi e ridere anche di sé».
A che punto è la Pancasila indonesiana, la filosofia a cui si deve l’unica Costituzione che riconosce 5 confessioni?
«Siamo in una fase critica, l’islam radicale ha preso piede e si fa sentire, guadagna consenso. Dobbiamo stare vigili».
Il primo personaggio del libro è Maria, giovane donna del nuovo Millennio rimasta incinta senza, a suo dire, la collaborazione di un uomo. Perché è partita da lei? Un modo per prendere di petto il sommo tabù?
«Mi piace giocare con la contraddizione, Maria è una figura cara ai cristiani ma anche ai musulmani. Cosa succede se una donna non sposata e teoricamente non “legittimata” ad avere rapporti sessuali resta incinta? Nel libro nessuno le crede. Ma lei va oltre, dice che metterà al mondo una profetessa. Non ho mai capito perché il Profeta dovesse essere per forza un maschio».
In alcuni racconti si sente l’eco sarcastico di Kafka e “La Metamorfosi”, Gogol, “La fattoria degli animali” di Orwell. C’è una scuola letteraria di riferimento?
«I libri di Kafka, Calvino, Orwell, mi sono familiari. In più ho un background giornalistico. Diciamo che il surrealismo ironico mi consente di giocare sul confine tra cronaca e fiction».
Una delle storie più divertenti racconta di un terrorista che nell’aldilà non trova le 72 vergini ma una donna reale che lo irride. È il contrappasso?
«Ho sempre pensato che quella promessa di paradiso per gli attentatori fosse un paradiso presunto ma comunque solo per gli uomini. Mi divertiva l’idea che a smontarne il mito fosse una donna del tipo che il terrorista odia: forte, vera, quelle che rimettono insieme i cocci».
Le donne sono più spiritose degli uomini?
«Forse sono diversamente spiritose. C’è un’interpretazione fanatica dell’islam che prevede punizioni, odio per i diversi, misoginia. Una recente ricerca indonesiana mostra che i giovani dotati di senso dell’umorismo sono i meno avvezzi ad essere reclutati dai jihadisti».
Il sesso è ancora un tabù per la vostra generazione?
«Siamo una generazione più libera di parlare e lo facciamo, ma restiamo rispettosi dei nostri genitori e dei nonni, diciamo che discutiamo di sesso alle loro spalle. Il web ci aiuta. C’è una cosa che mi turba però, come generazione digitale siamo senza dubbio più liberi sessualmente ma ci sono anche tanti giovani che attraverso il web si radicalizzano, che scoprono la libertà ma anche la jihad».