Avvenire, 6 luglio 2019
Emma Dante tra il Vangelo e Sofocle
«Io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato…». Sulle sedie della platea allestita nell’ex chiesa di San Simone, il pubblico trova insieme al programma del 62° Spoleto Festival dei Due Mondi un foglio con stampate le parole di Gesù dal Vangelo secondo Matteo (capitolo 25, versetti 34-40). Questa è la più bella “provocazione” che potesse fare Emma Dante, vulcanica regista palermitana dal segno forte, a volte urtante, a volte toccante per profondità, caratterizzato da un’estetica che attinge a piene mani alle sue radici siciliane, simboli cristiani compresi usati più o meno a proposito. Ma oggi, come ieri, si parla di popoli in cammino in cerca di aiuto. La regista, quindi, lascia che siano le parole del Vangelo (prima) e quelle di Sofocle (in scena) a esprimere l’urgenza dei tempi in questo Esodo, da lei scritto e diretto a partire dall’Edipo re.«Ci sono segni in questo spettacolo che ognuno può vedere come vuole» risponde senza sbilanciarsi la Dante. Nel dramma che ha debuttato in prima assoluta l’altroieri a Spoleto, dove resterà in scena sino al 14 luglio, l’autrice sintetizza in 100 minuti la vicenda del re esule da Tebe che vaga cieco in cerca di accoglienza dopo l’orrenda scoperta di avere ucciso il proprio padre Laio e sposato la propria madre Giocasta. Il palcoscenico diventa la meta di un lungo cammino migratorio, dove Edipo è accompagnato dalla sua famiglia (in realtà i suoi fantasmi), donne e uomini tebani, Giocasta e suo fratello Creonte, le figlie della colpa Antigone e Ismene, Tiresia e il vecchio Laio (un decrepito pupazzo). Un nutrito gruppo di emigranti siciliani anni ’50, vestiti di nero con le loro valigie arriva rumorosamente sul palco. Sono i 16 giovani ottimi allievi della Scuola dei mestieri e dello spettacolo del Teatro Biondo di Palermo. Alla loro testa Edipo, il navigato e credibile Sandro Maria Campagna, che, giunto davanti alle mura di Atene dopo avere attraversato il buio spaventoso del bosco sacro alle Eumenidi, appena incrociato lo sguardo del pubblico ordina di fermarsi. La carovana di nomadi apre le valigie e si accampa, stendendo i suoi panni coloratissimi al sole. «Stranieri, innome di Dio, proteggete la mia famiglia. Vi racconto la mia tragedia in cambio di ospitalità – esordisce Edipo parlandoci direttamene –. Abbiate pietà, siamo nelle vostre mani come nelle mani di un dio. Lasciateci varcare il confine e consentiteci di continuare a vivere. Non vi daremo disturbo, ci adatteremo, rispetteremo le vostre leggi, adorandovi come salvatori dell’umanità».«I grandi classici ci insegnano sempre qualcosa» aggiunge Emma Dante parlando della sua riscrittura in chiave contemporanea del mito, che parla del bisogno di confrontarsi con l’altro. La cornice, quindi, è il vero senso di questo Esodo, che si apre quindi al racconto del dramma di Edipo Re a partire dal matrimonio con Giocasta, una festa gitana dall’esuberanza giovanile dove gli esuli, abbigliati di abiti sgargianti, si scatenano con tamburelli, fisarmoniche e danze sicule, mentre Edipo, da vero capoclan, quando si arrabbia sfodera tanto di coltello a serramanico. Come quando Creonte gli riporta il vaticinio infausto di Apollo. Il fratello di Giocasta diventa un prete abbigliato da messa, in quanto tramite tra le parole del Dio e i mortali, ma fortunatamente non è un uomo assetato di potere come nell’originale di Sofocle: alle accuse di Edipo si rivela una persona che ha trovato nel sacro la sua vocazione. Piuttosto stucchevole, quindi, risulta il coro di beghine nerovestite che recita una parodia del Rosario per allontanare da Tebe la peste. Alla fine si torna davanti alle mura di Atene, che potrebbe essere tanto uno dei nostri porti chiusi quanto il muro fra Messico e Usa. Un grido all’unisono ci investe chiudendo il racconto: «Abbiate pietà!».