Il Sole 24 Ore, 6 luglio 2019
L’altalena del petrolio non preoccupa l’Italia
Chiunque venga interpellato sull’andamento del petrolio ha generalmente due risposte: i prezzi del greggio andranno alle stelle a causa dell’escalation delle tensioni tra Stati Uniti e Iran, con una conseguente crisi per l’Europa e l’Italia; oppure il rallentamento della crescita economica globale affosserà le quotazioni con conseguenze negative sull’economia europea e italiana. Entrambi gli scenari sono negativi per i titoli azionari, dicono gli esperti. Sbagliato. Come ho avuto modo di spiegare a febbraio su questo giornale, non siamo più negli anni ’70. La capacità del petrolio di condizionare gran parte delle economie sviluppate è semplicemente scomparsa, per cui non lasciamoci intimorire da vecchie preoccupazioni.
A confondere sono probabilmente le forti oscillazioni del petrolio dello scorso anno e i titoli dei giornali. Alla fine della scorsa estate, il Brent ha avuto un rialzo repentino del 25,9%, per poi lasciare sul terreno il 41,2% tra ottobre e dicembre 2018. Le oscillazioni sono proseguite fino a poco tempo fa. A inizio 2019 i prezzi sono aumentati in maniera esponenziale – su del 48,2% dal 25 aprile scorso – e molti hanno dato la colpa alle crescenti tensioni tra Stati Uniti e Teheran. Dopodiché, il petrolio ha ceduto il 20%, e i media hanno considerato il rallentamento della domanda globale di greggio come segnale di un imminente pericolo di recessione.
I timori relativi all’Iran contengono, però, un elemento di verità: le oscillazioni dei corsi petroliferi riguardano l’offerta, non la domanda. Qualora le sanzioni e le tensioni con Teheran restringessero l’offerta, l’Italia e l’Europa, fortemente dipendenti dalle importazioni, vedrebbero un aumento significativo dei costi. Infatti, i prodotti petroliferi costituiscono la principale fonte di energia per l’Italia, pari al 39,1% dei consumi. L’Italia importa circa il 12% del proprio fabbisogno dall’Iran e il 25,2% in totale dai vicini paesi del Golfo Persico – Iraq, Arabia Saudita e Kuwait. Se l’Iran riuscisse effettivamente a chiudere lo Stretto di Hormuz, come più volte minacciato, i prezzi subirebbero un aumento.
Ma un forte rincaro da parte dell’Iran non sarebbe comunque sufficiente a creare scompiglio. Per tre motivi, tutti riconducibili ad una fondamentale constatazione: non siamo più negli anni ’70. Innanzitutto, lo Stretto di Hormuz è largo quasi 39 chilometri: troppo perché la marina iraniana riesca a sbarrarlo. La Guerra Iran-Iraq tra il 1980 e il 1988 che é passata alla storia come la “guerra delle petroliere” per i numerosi attacchi sferrati a queste navi, colpì appena, per arrotondamento, il 2% del traffico nel Golfo Persico. Durante tale periodo i prezzi petroliferi non subirono un aumento repentino, cosa ben diversa da quanto avvenuto con l’embargo del ’73.
Oggi la probabilità che ciò avvenga è persino minore. Perché? A causa dell’aumento della produzione statunitense di shale oil, il secondo indicatore del fatto che non siamo più negli anni ’70. Secondo i dati annuali di BP, lo scorso anno la produzione USA è aumentata di 2,2 milioni di barili al giorno: una crescita mai registrata prima da un solo paese. Secondo le stime dell’Energy Information Administration statunitense, nel 2019 la produzione segnerà un nuovo incremento pari a 1,36 milioni.
Infine, gli enormi passi avanti sul fronte dell’efficienza energetica dovrebbero attutire il contraccolpo di un eventuale rincaro dei corsi petroliferi. Per questa ragione, il consumo di petrolio di un’economia non è un valido indicatore del suo stato di salute. Come ho illustrato in dettaglio nel mio articolo di febbraio, l’economia italiana è trainata dal settore dei servizi, mentre il contributo dell’industria pesante sta diventando più marginale. Le società di servizi consumano meno energia degli impianti industriali, anche se il settore manifatturiero ha incrementato l’efficienza energetica. In conclusione: benché l’Italia faccia ancora largo uso di petrolio, il consumo è calato rispetto agli ultimi decenni, nonostante l’aumento del Pil. Nel 1995, a ogni migliaia di tonnellate di petrolio consumate corrispondevano 23,2 milioni di euro di Pil corretto per l’inflazione. Oggi quella cifra equivale a 34,1 milioni di euro.
Le montagne russe del petrolio potrebbero proseguire, ma non lasciamoci spaventare da queste oscillazioni. Decenni di timori legati all’andamento del petrolio, al rialzo e al ribasso, indicano solamente la presenza di un clima di sfiducia, che prepara il terreno a sorprese positive al concretizzarsi della crescita economica. Tutti questi timori costituiscono un fattore rialzista.
(Presidente di Fisher Investments Europe e Presidente esecutivo di Fisher investments)