la Repubblica, 6 luglio 2019
Nel centro di detenzione per profughi a Tripoli
TAJOURA (LIBIA) — «Il primo missile è arrivato esattamente alle 23,28 della notte di martedì, guarda qui il video della telecamera di sicurezza… si vede l’esplosione sull’hangar numero 5, le prime guardie e i primi migranti che si allontanano proprio verso l’hangar numero 3. E 11 minuti più tardi, alle 23,39, è arrivato il secondo missile o la bomba sul “3”, noi non sappiamo cosa sia stato». Ahmed Abu Saad è uno dei leder tribali di Tajoura, una specie di “sindaco” conosciuto in tutta Tripoli per la sua capacità di difendere i diritti di questo Comune che si è trasformato in un enorme sobborgo della capitale.
Ci guida nelle strade di campagna verso il centro di detenzione del ministero dell’Interno che martedì notte è stato colpito due volte. Si arriva alla “beach 32” lungo la strada costiera, ovvero al chilometro 32 dal centro, si svolta a destra e si entra fa campagne, case e capannoni, edifici fatiscenti come ovunque nel Sud del Mediterraneo. Si attraversa un campo di olivi splendidi, quasi una foresta, si gira attorno al capannone della “Alwahr Carpets” e si entra nel grande compound del centro di detenzione.
«Non possono averlo fatto apposta, ma è come se il primo colpo avesse spinto la gente verso il secondo hangar, quello dove c’è stata la strage, guardi le persone che corrono e poi scompaiono nella nuvola del secondo missile».
Mentre parliamo un bulldozer spazza via le ultime macerie del capannone. Tra i calcinacci un poliziotto e due volontari con un secchio raccolgono gli ultimi resti umani. Non osiamo neppure chiedere che cosa ne faranno. «I migranti sono stati colpiti dai grandi pezzi di eternit e dalle travi di ferro che dal tetto sono volati dappertutto, come lame di coltelli», dice il signor Ahmed.È un uomo attivo e rispettato, e il fatto che abbia vissuto in Italia, a Terni, assieme alla lingua italiana parlata con sicurezza e all’esperienza di commerciante in giro per l’Europa gli conferisce una forza sociale riconosciuta. «Io dormivo, ho sentito i botti, immediatamente sui social sono partiti gli allarmi, sono arrivate ambulanze dall’ospedale nostro di Tajoura, da quello di Abu Salim e da Zawyia centrale».
Il video con le esplosioni gira su Internet: «La telecamera continua a funzionare ha registrato tutto, anche dopo». E adesso parla il comandante del campo, il tenente colonnello Nuri Al Gritly: «Ho visto che i soldati di Haftar hanno messo in giro la voce che le guardie hanno sparato ai migranti in fuga: è una follia totale. Siamo tutti insieme prigionieri da 3 mesi di questa guerra voluta da Haftar. L’altra notte loro, i migranti, hanno salvato 3 dei miei uomini che erano stati feriti, noi abbiamo fatto spazio alle ambulanze, abbiamo salvato i feriti, abbiamo raccolto i loro corpi sembrati». Scene di una guerra che, da quando è iniziata, in aprile, ha fatto ormai mille morti e cinquemila feriti.
Mentre proviamo a ricostruire la notte dell’attacco, chiamano il colonnello: sul tetto dell’hangar vicino è stato trovato un altro corpo smembrato. «Quella notte è stato un inferno, il missile ha fatto un cratere di 3 metri per 1, non sappiamo che cosa sia».Sul perché dell’attacco nessuno sa dare una vera spiegazione. «Qui accanto c’è un vecchio deposito militare, ma è abbandonato da quando hanno provato a colpire il 7 maggio. Il ministro Bishaga dice che è stato un F16? Noi non lo sappiamo, sappiamo soltanto che di notte volano molti droni degli Emirati e che sganciano bombe ovunque attorno a Tripoli».
Il colonnello si allontana, con operatori della Mezzaluna rossa avviciniamo i migranti. Sharif al Sharif con la sua maglietta della Juventus ha 18 anni arriva dal Sudan: «Tu giornalista arrivi adesso che ci sono 70 morti tutti insieme. Ma quanti morti ci sono ogni giorno, ogni mese nel deserto? Sono fuggito alla guerra del Darfur, sono da 3 anni in movimento, ci ho messo un anno ad arrivare in Libia e adesso provo in ogni modo di arrivare in Europa o in America. Sono stato bloccato a Sabrata il 6 ottobre del 2017, mi sono fatto altri campi di detenzione, sono arrivato qui a Tajoura. Che cosa voglio fare? Io voglio ancora andare in Europa».
Si avvicina Said Ibrahim Giama. Somalo, alto, mastica fra i denti una radice. «Se Allah vuole, voglio andare in Europa o in Canada, non torno indietro. Ci ho messo un anno per passare dalla Somalia, al Sudan alla Libia. Qui in Libia c’è guerra e c’è caos. È vero che ci sono bande di ciadiani e di nigeriani che si sono inserite nel traffico di migranti, che fanno paura anche alla loro polizia. Per questo poi i libici odiano tutti noi migranti».Abdelaziz Hussein, 17 anni, è arrivato da Mogadiscio. Un’odissea, come un viaggio verso un altro pianeta, fino alla Libia. Un incubo iniziato quando aveva 14 anni. «Non posso ritornare: mio padre è morto, la mia famiglia si è dispersa, hanno bruciato le nostre case. Io ero nell’hangar 3, quello colpito, sono vivo per miracolo, ha ancora sotto le unghie la carne di quelli che ho tirato fuori dal fuoco». Chiediamo di nascosto se in questo campo vengono picchiati, torturati. «All’improvviso, per un nonnulla possono picchiarti», dicono altri, «ma è nulla rispetto ai trafficanti. Sai come li abbiamo pagati? Loro ci catturano, ci fanno telefonare alla famiglia, ci torturano e ci picchiano mentre i nostri padri, i nostri fratelli ascoltano al telefono. Chiedono i soldi per la nostra vita e quelli devono versare soldi sui Money Transfer. Funziona così». Dice Shari, il sudanese: «Noi stiamo peggio, siamo prigionieri di un Paese che è prigioniero. Ma stiamo tutti insieme, con le guardie e con i libici».