5 luglio 2019
Tags : Tenzin Gyatso
Biografia di Tenzin Gyatso
Tenzin Gyatso (Lhamo Dondrub), nato a Taktser (Tibet) il 6 luglio 1935 (84 anni). XIV Dalai Lama del Tibet (dal 22 febbraio 1940). Già monarca del Tibet (1950-1959) e capo di Stato dell’Amministrazione centrale tibetana (1959-2012). Premio Nobel per la pace (1989). «Fra Cina e Tibet vi è uno scontro fra il potere della verità e il potere della forza: fino a oggi ha prevalso il secondo, ma sul lungo periodo non potrà che prevalere il primo. La verità avrà la meglio sulla forza» • «Nel Tibet è l’Anno dell’Uccello dell’Acqua, e il tredicesimo Dalai Lama è morto. A Lhasa, la capitale, governa un reggente, e la folla piange ammassata lungo le sacre mura. Quanto tempo passerà prima che i saggi trovino il nuovo Dalai Lama? Egli dev’essere la reincarnazione del vecchio: un bambino nato quando lui è morto. I Saggi devono cercarlo per tutto il Paese, visitando ogni villaggio, ogni capanna: ma perché ciò avvenga ci vuole un’indicazione. Bisogna che una serie di prodigi li guidi, e che il primo prodigio sia compiuto dal morto. Rivestito d’oro e d’argento, il tredicesimo Dalai Lama è stato assiso un’ultima volta sul trono. Lì se ne sta, puntellato, intirizzito, da giorni, e la testa gli cade in avanti: cioè a sud. Ma d’un tratto egli è scosso da un brivido, da un soffio di vita, e la testa si volta a nord-est. Nello stesso momento strane nuvole appaiono nel cielo terso, e vanno verso nord-est. Poi un fungo a forma di stella si forma sopra un pilastro del tempio a nord-est, e il reggente ha una visione. Sulle acque del lago dove sta meditando, si è formata a nord-est l’immagine di un monastero col tetto di giada e di oro; accanto, l’immagine di una casa con le tegole color turchese. I Saggi partono, diretti a nord-est. Per mesi e mesi viaggiano fermandosi in ogni villaggio, in ogni capanna, e son quasi trascorsi due anni quando scorgono un monastero col tetto di giada e di oro. È il monastero di Karma Rolphai Dorje, nel distretto di Amdo, e non lontano da quello è una casa con le tegole color turchese. È una casa di contadini. I Saggi si travestono da mendicanti ed entrano chiedendo pietà. I contadini, marito moglie e sei figli, li ricevono con gentilezza. I Saggi stanno mangiando quando irrompe un bambino che dice di chiamarsi Kondun e di avere due anni. L’età è giusta: i Saggi lo sottopongono immediatamente all’esame. Essi portano con sé due rosari identici, due bastoni identici, due tamburi identici. Ma uno dei rosari e uno dei bastoni e uno dei tamburi appartenevano al vecchio Lama: solo la reincarnazione del vecchio Lama può riconoscerli, oltre a loro. “Scegli”, dicono al bambino. E il bambino sceglie il rosario giusto, il bastone giusto, il tamburo giusto. Poi esclama: “Voi non siete mendicanti, io voglio venire con voi”. I Saggi si gettano ai suoi piedi, agli allibiti genitori rivelano che la loro ricerca è conclusa: il figlio che hanno partorito è il quattordicesimo Dalai Lama» (Oriana Fallaci). «Ero molto piccolo, avevo due anni. La mia famiglia viveva in un piccolo villaggio del Tibet e sembra che, nei giorni precedenti l’arrivo della delegazione in cerca del nuovo Dalai Lama, fossi molto eccitato. Evidentemente sentivo che la mia vita sarebbe cambiata, anche se non ne percepivo bene il significato». «Passeranno ancora due anni prima che essi possano condurlo a Lhasa. Il governatore di quella provincia è cinese, odia i tibetani e pretende un riscatto per far partire Kondun: è necessario recarsi a cercare il denaro. Ma, alla fine dell’Anno della Lepre di Terra, la carovana si forma: trecentocinquanta fra muli e cavalli, cinquanta persone. Fra queste è la famiglia di Kondun, strappata alla casa dalle tegole color turchese: la regola impone che i genitori e i fratelli del Dalai Lama vivano a Lhasa. Il viaggio dura tre mesi e tredici giorni, attraverso valli e montagne prive di sentieri, di strade. Il bambino è portato a braccia, oppure su una palanchina. Malgrado i disagi, non dà mai segno di stanchezza o di noia. Capita a volte che il corteo si fermi presso un centro abitato e che la folla corra a circondarlo danzando, suonando cimbali e flauti, bruciando incenso di rose: ma neanche allora lui piange o ride, o si comporta come un bambino. Resta lì solenne a ricever gli omaggi, e lo stesso accade quando giunge alle porte di Lhasa, dove decine di migliaia di fedeli lo aspettano: insieme ai membri dell’Assemblea nazionale, i centosettantacinque monaci che governano il Tibet, i rappresentanti della Cina, del Butan, del Nepal, del Sikkim. Lo stesso quando egli entra nella reggia di Pothala, quando viene trasferito nella residenza estiva di Norbulingka, quando lo presentano nella cattedrale. L’investitura avviene il quattordicesimo giorno del primo mese dell’Anno del Drago di Ferro, in un fasto allucinante e interminabile. […] Ma non si abbandona mai a uno sbadiglio, a un errore. È un bambino eccezionale, d’una intelligenza quasi sconcertante per la sua età. E i suoi tutori sono pazienti quanto spietati. A sei anni egli impara già l’astrologia, la poesia, la composizione e la musica. A dieci studia già il sanscrito, la dialettica, la metafisica, l’arte di guarire e la psicologia della religione. Una minima parte della giornata gli viene concessa per il riposo e per giochi. Dall’alba fino a notte inoltrata egli sta chino sui libri, e presto la vista ne soffre: è necessario fargli spedire dall’India un paio di occhiali. Con quegli occhiali e quella sapienza egli cresce, adorato come un dio e sacrificato come un prigioniero, ignorando tutto di ciò che avviene al di fuori della fiabesca gabbia in cui vive. Più che una reggia, Pothala è un magazzino di paradossali ricchezze. […] Di lì va solo a Norbulingka, dove è accecato da un identico sfarzo. Norbulingka significa Parco Gioiello: tempietti, palazzette, giardini curati fino all’esasperazione, pieni di uccelli rari, di fiori strani, di noia più pesa del piombo. La noia d’essere non solo il capo spirituale del Tibet, ma il capo temporale, e, con ciò, dover sostenere gli impegni del governo, la continua minaccia dell’invasione cinese. Da secoli la Cina invade il Tibet, per poi abbandonarlo con qualche trattato e invaderlo ancora. Il sapiente ragazzino con gli occhiali aveva appena compiuto i quindici anni che gli oracoli dei conventi cominciarono a rivelare cattivi presagi. […] E gli astrologi dissero che l’antica profezia secondo la quale “una grande potenza del Nord avrebbe conquistato il Paese distruggendone la religione e imponendo la sua egemonia al mondo intero” stava per avverarsi. Dopo pochi giorni, era l’ottobre del 1950, le truppe di Mao Tse-tung attaccavano in sei punti diversi il confine, e Mao Tse-tung annunciava la decisione di restituire il Tibet alla madre patria. Difendersi era naturalmente impossibile. […] E, sebbene nel 1812 il Tibet avesse dichiarato l’indipendenza, quest’atto non era stato sanzionato dinanzi a nessuna nazione: da secoli il Paese viveva nell’isolamento totale, le sue frontiere erano chiuse al resto del mondo, i suoi rapporti diplomatici erano inesistenti. […] Però, mentre i monaci si affrettavano a spedire in India una parte del tesoro statale, […] il sapiente ragazzino fece qualcosa di più: anziché fuggire, chiese aiuto all’Inghilterra, agli Stati Uniti, ai Paesi di cui aveva appena sentito parlare. E, quando n’ebbe un rifiuto, si rivolse all’Onu. […] L’Onu negò ogni intervento, nella primavera del 1951 i primi reparti cinesi entravano in Lhasa alzando enormi ritratti di Mao Tse-tung e Ciu En-lai. Ma nemmeno allora lui capitolò. Mandò una delegazione a Pechino, intavolò trattative coi generali cinesi e, loro prigioniero, assunse tutte le possibili responsabilità di un re. Fu per nove anni un buon re. Provocò e attuò riforme, si barcamenò con astuzia, si recò perfino in Cina a parlare con Mao Tse-tung. Studiò Marx e l’inglese. […] La sua libertà si restringeva sempre di più, di tutta quella reggia disponeva ormai di soli cinque locali, e lì gli giungevano notizie di monasteri distrutti, conventi saccheggiati, lama torturati e uccisi, inutili rivolte di contadini armati solo di zappe. Affacciato alle finestre da cui aveva ammirato le processioni fastose, scorgeva gli accampamenti cinesi e i cartelli dove Budda veniva tacciato di reazionario. Non era più padrone di nulla. […] Ecco giungere il marzo 1959, l’Anno della Tigre dell’Acqua. Il Dalai Lama è ormai un giovanotto […] e ha appena preso la laurea in Metafisica discutendola coi vecchi tutori nel corso di una cerimonia squallida, quasi segreta. Arriva un messo e lo informa che nel campo cinese al di là del Fiume di Pietra c’è uno spettacolo cui egli è rigorosamente invitato senza guardia del corpo e senza scorta armata. Il Dalai Lama sa cosa vuol dire. Quattro lama hanno già ricevuto l’invito e non sono tornati. Si sparge la voce che la sua vita è in pericolo, col pretesto di volerlo proteggere trentamila tibetani circondano il palazzo gridando: “Il Tibet ai tibetani”. È la rivoluzione, il massacro. Se i cinesi hanno le armi automatiche, i tibetani hanno solo bastoni e coltelli. Stavolta è proprio necessario che il Dalai Lama tenti di fuggire. Promette quindi che presenzierà allo spettacolo al di là del Fiume di Pietra, ma quando scende la sera si traveste da soldato, si toglie gli occhiali per non essere riconosciuto, e brancolando nel buio, nella sua miopia, si allontana da palazzo. Lo seguono solo i membri della famiglia e pochi fedeli, travestiti anche loro. Insieme a loro […] supera le sacre mura e si tuffa dentro la folla, fra le truppe cinesi, raggiunge i cavalli che subito scattano galoppando nel buio. Di villaggio in villaggio, di montagna in montagna, di ghiacciaio in ghiacciaio, per settimane, braccato da un aereo cinese che ogni tanto si abbassa e allora bisogna correre dentro un cespuglio o dentro una caverna, finché raggiunge il confine con l’India, dove il Pandit Nehru gli ha promesso asilo e protezione. E qui saprà che, mentre lui fuggiva, Pothala è stata distrutta, la città bombardata: della fiaba sontuosa nella quale è cresciuto non rimangono che alcune macerie e migliaia di cadaveri con un bastone in mano, un coltello» (Fallaci). Da allora risiede esule a Dharamsala, nell’Imachal Pradesh, «un’ex stazione di collina coloniale chiamata anche la piccola Lhasa, dato che è abitata da migliaia di tibetani fuggiti dalla Cina […] o nati in India. E lì c’è anche la sede del governo tibetano in esilio, e numerosi monasteri tibetani» (Ilaria Maria Sala). «L’occupazione cinese scardinò completamente e violentemente l’assetto della società tibetana: migliaia di monasteri furono distrutti e dati alle fiamme, decine di migliaia di monaci furono uccisi oppure obbligati al lavoro, molti di loro vennero incarcerati come dissidenti, senza un processo e senza un motivo. I cinesi introdussero la suddivisione in classi sociali e coloro i quali in passato avevano posseduto qualche forma di ricchezza vennero trattati con accanita ferocia. Le violenze degli anni Cinquanta e Sessanta non sono ancora cessate, la questione tibetana non è affatto risolta. Anzi, […] il Tibet è divenuto una regione cinese a tutti gli effetti. […] Il Dalai Lama non è mai più tornato nel suo Tibet. Rifiutò, nel 1977, l’offerta cinese di farvi ritorno in cambio dell’accettazione della supremazia cinese sul territorio. Rifiutò e continuò a occuparsi da Dharamsala, sede del governo tibetano in esilio, di dare accoglienza ai cittadini che riuscivano a scappare. […] Ma, se la questione tibetana, pur non avendo subìto evoluzioni, è ancora attuale, lo dobbiamo proprio al Dalai Lama, al suo carisma, alla straordinaria apertura verso la modernità che ha saputo articolare con il suo viaggiare e il suo dialogare con i media» (Ilenia Carrone). «La fuga gli ha aperto le porte del mondo. […] Ha frequentato i potenti del mondo. […] Ha conosciuto […] papi, i più importanti presidenti americani, da Roosevelt in poi. […] Con alcuni capi di Stato ha fraternizzato. […] Per il suo nemico storico, Mao Zedong, il Gran Timoniere cinese che ha dichiarato guerra al Tibet e lo ha costretto all’esilio, non ha parole di odio. “Era un uomo forte, molto convinto di sé, emanava energia come un magnete. L’unica volta che l’ho incontrato, a Pechino nel 1953, ero terribilmente in soggezione”» (Anaïs Ginori). «Nel 1989 il Dalai Lama ha ottenuto il premio Nobel per la Pace, per i suoi anni di lotta non-violenta al fine di ottenere l’autonomia che, in teoria almeno, Pechino ha promesso al Tibet. Alcuni fanno notare che fino al 1971 la Cia sponsorizzò un piano di guerriglia anticinese, di cui il Dalai Lama era a conoscenza, e che dunque per questo non è sempre stato pacifista. Ciò nonostante, grazie alla sua influenza, le ribellioni violente contro la Cina sono state tenute sotto controllo» (Sala). Tra il 2011 e il 2012 «il Dalai Lama ha rinunciato a tutte le cariche politiche ufficiali, dopo aver promosso l’idea che venisse eletto un primo ministro tibetano tramite suffragio universale fra la comunità in esilio. È stato eletto Lobsang Sangay, avvocato tibetano nato in esilio in India. […] Il Dalai Lama vuole ora essere solo una figura spirituale, per quanto questo sia in contraddizione con i suoi frequenti viaggi all’estero, nel corso dei quali incontra di frequente capi di Stato e altre cariche politiche internazionali» (Sala). Da ultimo, nel 2018, ha dovuto smentire recisamente voci insistenti – diffuse da organi di stampa cinesi e indiani – che lo descrivevano come gravemente malato e prossimo alla morte. «Alle voci aveva già risposto pubblicamente parlandone con i tibetani esuli. “Con le vostre preghiere e i vostri auspici – aveva detto – vi assicuro che posso vivere circa 100 anni”. […] “La nostra responsabilità è iniziare un lavoro etico. Io penso di poterci lavorare altri 10, 20, 30 anni, ma non mi aspetto nessun grande cambiamento in questa mia vita, no. È nostra responsabilità iniziare il lavoro e poi l’altra generazione lo porterà avanti, come gli esseri umani hanno fatto nelle precedenti generazioni per migliaia di anni”» (Raimondo Bultrini). «Pechino non apprezza l’ospitalità indiana a quello che considera un leader separatista e feudale. Ora, per cercare di migliorare i rapporti con la Cina, Narendra Modi ha promesso a Xi Jinping una svolta: intanto il flusso dei rifugiati è quasi finito, con solo 57 nuovi accolti nel 2017; poi alla massa di tibetani in India è stato consigliato di chiedere la cittadinanza; e al governo tibetano in esilio è stato suggerito di abbassare il profilo per non turbare oltre misura Pechino. In cambio, Modi conta che diminuisca la pressione militare cinese sulla lunga frontiera himalayana contesa tra i due giganti dell’Asia. Il 14° Dalai Lama ha abbandonato da tempo ogni ruolo politico, forte del suo prestigio. […] È fatale che il 15° Dalai Lama non possa avere la sua stessa forza carismatica e quindi la causa tibetana sarà meno affascinante, anche per gli occidentali probabilmente. Se ne rende conto anche Sua Santità, che già nel 2014 è arrivato a ipotizzare la fine dell’istituzione, dopo la sua morte terrena, e ha invitato i seguaci a non cercare la sua reincarnazione. Nessun 15° Dalai Lama significherebbe cristallizzare il tempo del Tibet all’èra del 14°, fermando i tentativi cinesi di trovare un successore gradito. E difatti Pechino ha risposto a mezzo stampa alla sortita di Sua Santità: “Nella storia la reincarnazione del Dalai Lama non è mai stata una questione puramente religiosa né tanto meno personale. Il buddismo tibetano non appartiene al Dalai… Lui invecchia e si preoccupa per il suo governo in esilio, sempre più irrilevante: per questo cerca pubblicità con il discorso sulla fine della reincarnazione”, scrisse il Global Times, quotidiano nazionalista cinese, sostenendo che “la decisione sulla reincarnazione spetta a Pechino” (dichiarazione sorprendente per un governo che si proclama ateo)» (Guido Santevecchi). «Gli oracoli tibetani […] hanno predetto che vivrà fino a 112 anni» (Ginori). «Il Dalai Lama si è anche divertito a immaginare un XV Dalai Lama straniero o donna» (Marco Del Corona) • «In Cina qualcosa sta cambiando: il buddismo, per esempio, sta avendo una rapida e grande diffusione. La Beijing University ha stimato che, solo negli ultimi 5 anni, il numero dei buddisti nel Paese sia passato da 300 a 400 milioni, e questo fenomeno ha coinvolto soprattutto la classe media e la fascia più istruita della popolazione. Molti di questi buddisti considerano la tradizione tibetana come la più autentica, e questo è uno sviluppo molto positivo» • «Storicamente il Tibet non ha mai fatto parte della Cina, e molti testi storici cinesi lo riconoscono. […] Ma, nonostante ciò, dal 1974 abbiamo rinunciato ad ogni richiesta di indipendenza e siamo disponibili a negoziare lo status di un Tibet autonomo all’interno della Repubblica Popolare Cinese, a condizione che la Cina riconosca ai tibetani i loro diritti fondamentali: professare la propria religione, tenere in vita la lingua e la cultura tibetana, preservare il proprio stile di vita. Siamo sempre disponibili al dialogo e siamo aperti a soluzioni politiche condivise, anche se a Pechino continuano a definirmi un “separatista”… Molti intellettuali in Cina e anche diversi membri del Partito comunista sono disponibili al dialogo con il Tibet. Le cose stanno cambiando, ma non sono in grado di valutare quanto grandi saranno questi cambiamenti in Cina nel prossimo futuro». «A causa della sua battaglia pacifica per un Tibet libero, la figura del Dalai Lama è tanto amata quanto è scomoda. Lo sanno bene i pochi leader europei che hanno avuto il coraggio di incontrarlo, più o meno ufficialmente. […] Infatti, Pechino si è sempre fatta sentire, minacciando embarghi e boicottaggi, come nel caso di Expo, quando la Cina riuscì a impedire a Giuliano Pisapia di conferire al Dalai Lama la cittadinanza onoraria di Milano. […] Anche a un papa come Francesco, che ha incontrato davvero tutti – da Putin a Balotelli – è stato consigliato […] di non ricevere Tenzin Gyatso. Così, Francesco, primo papa a sorvolare lo spazio aereo cinese e il primo a riuscire a far dialogare due realtà plurimillenarie come la Cina e la Chiesa, ha preferito dire di no al Dalai Lama» (Massimiliano Jattoni Dall’Asén) • «Il mio primo impegno è quello che mi viene dall’essere un umano, e provo a promuovere i diritti umani di base come karuna, la compassione. Il secondo impegno è quello del buddhista che cerca di creare armonia tra le diverse tradizioni, tibetane, buddhiste, ma non solo. […] Il terzo è quello per il Tibet. Degli affari politici mi sono liberato dichiarandomi pensionato, […] ma mi sono preso la responsabilità di preservare la cultura tibetana. […] Distinguo tra lo stesso buddhismo e la cultura buddhista, che è qualcosa di molto importante e va preservata. Per spiegare ad esempio complesse filosofie nei testi della logica buddhista, è essenziale usare la complessità della lingua tibetana, e questo è un altro motivo per cui è importante. […] Infine il mio quarto impegno, tentare di far rivivere quell’antica conoscenza indiana in grado di aiutare a gestire le emozioni lavorando sulla mente. Questo lo chiamo educazione, che ora nelle scuole è intesa a livello fisico e di apprendimento delle nozioni necessarie per un futuro. Ma dobbiamo includere nell’educazione come imparare a trasformare le emozioni che affliggono molti giovani» • «Fin da quando ho rinunciato ad ogni responsabilità politica, la questione ambientale è stata per me una priorità. Uno scienziato cinese ha recentemente descritto l’altopiano tibetano come il “Terzo Polo” del Pianeta, i cui mutamenti possono condizionare il riscaldamento globale quanto il Polo Nord e il Polo Sud. Il Tibet è un ecosistema estremamente delicato: l’altezza molto elevata, il poco ossigeno e il clima molto secco fanno sì che ogni mutamento indotto dall’uomo renda necessario un tempo molto lungo per riparare eventuali danni. Tutti i grandi fiumi dell’Asia (il Mekong, lo Yangtze, il Gange, l’Indo e il Brahmaputra) nascono in Tibet e le sue acque portano la vita a 3 miliardi di esseri umani. Per questo motivo l’ambiente in Tibet va rispettato in modo particolare» • Grande interesse anche per le neuroscienze. «Le neuroscienze ci permettono di comprendere il fondamento biologico della “compassione”, dimostrando come essa favorisca la neurogenesi (la formazione di nuovi neuroni, ndr); l’aggressività invece agisce in senso opposto, limitando e riducendo lo sviluppo dei circuiti neurali. La compassione rappresenta un’attitudine altamente benefica in grado di inibire i geni dello stress. Con la meditazione si può fare molto, e anche condizionare positivamente il proprio cervello, controllando le emozioni, eliminando quelle più distruttive. Credo sia molto importante il dialogo che è iniziato fra monaci buddisti e neuroscienziati: questo sarà uno dei miei impegni principali nei prossimi anni» (a Gianni Vernetti) • «Fin da bambini, ci è evidente che il nostro benessere dipende dagli altri. Il neonato lo sa perché "dipende" dalla mamma. Ecco perché chi ha compassione per gli altri sta bene, nel fisico e nell’animo. Chi ne è consapevole mette in atto una sorta di egoismo saggio e intelligente. […] Quindi, se volete essere egoisti, siatelo in modo intelligente: occupatevi degli altri. I primi a trarne beneficio non saranno loro, bensì voi stessi» • «Se uno diventa rifugiato o profugo, significa che dove viveva prima stava male. E, se viene in Italia dal Nord Africa e dalla Siria o da altri Paesi travagliati, vuol dire che nel suo Paese rischia la vita. Ma purtroppo i migranti e i profughi sono in aumento, e la buona volontà della gente non basta più. C’è un problema di gestione a cui bisogna porre rimedio prima che sia troppo tardi. Perciò, sì all’accoglienza, ma meglio ancora alla prevenzione, andando ad aiutare gli Stati che hanno problemi economici, conflitti religiosi e un grande divario fra ricchi e poveri e fra Nord e Sud» • «Fa parte della mia pratica promuovere l’armonia tra le religioni. E vi dico che tutte le religioni portano lo stesso messaggio e hanno tante pratiche comuni. L’obiettivo è di aiutare gli altri, il consiglio è: non cambiate la vostra religione». «Quando penso agli scontri fra sciiti e sunniti in Iraq o fra buddisti e musulmani in Birmania o fra cristiani e musulmani in Egitto, credo che tutto ciò sia veramente inconcepibile. Tutte le religioni, nonostante le differenze teologiche e filosofiche, sono portatrici di un messaggio di amore, perdono, tolleranza. Uccidere in nome di Dio è inimmaginabile. Le religioni possono convivere e l’armonia fra le religioni è una sfida fondamentale. Il viaggio di Sua Santità papa Francesco nella penisola arabica è stato molto importante. Questa è la strada giusta da intraprendere» • «Con la sua perseveranza, la sua mitezza ferrea, la sua disponibilità ad accettare il dialogo, è riuscito finora a impedire che il Tibet sprofondasse nel dimenticatoio della storia. Se fosse rimasto quieto a Dharamsala, nella città indiana dello Himachal Pradesh, il mondo si sarebbe dimenticato. Ma la “testa di serpente velenoso”, così lo chiamano in Cina, ha portato il suo messaggio in giro per il mondo intero, un messaggio che è spirituale e senza tempo: parole e massime, le sue, che confortano chi lo ascolta, una pratica della disciplina della meditazione in cui gli uomini più diversi si impegnano, a New York, a Hollywood, a Parigi, in Italia» (Renata Pisu) • «È il profeta della non-violenza, ma da piccolo guardava i western di John Wayne. Predica la serena accettazione della morte, ma quando sale su un aereo è terrorizzato e deve chiudere gli occhi durante il decollo. Non sa usare il computer però è capace di riparare un’automobile in panne. […] Il Dalai Lama è tutto questo: conoscitore dell’anima, studioso di fisica quantistica, maestro dell’arte meditativa, uomo di battute fulminanti e frequenti strappi al cerimoniale. Durante una cena alla Casa Bianca va a salutare i cuochi in cucina: “C’è un buon odore che arriva da queste parti…”. In visita a Parigi, passeggiando con la ex first lady Danielle Mitterrand, si ferma davanti alla statua di Budda: “Ecco, le presento il mio capo”. […] Ha confessato di aver sognato donne belle come divinità che si avvicinavano a lui e di aver immaginato di combattere in una guerra. “Questo dimostra soltanto che sono un uomo normale”, è stato il suo commento» (Ginori). «Ride spesso il Dalai Lama, fragorosamente, contagiosamente. […] “Voi occidentali pensate che in Tibet la gente sia cupa, sempre a salmodiare preghiere. Invece noi amiamo scherzare, troviamo sempre qualcosa di cui ridere: perché il senso dell’umorismo ci abbandoni dobbiamo essere in condizioni davvero disperate”» (Pisu) • Onnivoro • «Possiedo diversi orologi preziosi, con la loro vendita potrei costruire capanne per i poveri: non l’ho ancora fatto. So anche che, se fossi vegetariano, non solo darei un buon esempio, ma potrei salvare la vita di molti animali innocenti. Dunque, devo ammettere che vi sono contraddizioni in me, ma la mia parola chiave è: “Faccio tanto quanto posso, senza arrivare ai limiti estremi”» • «Nel 1989, subito dopo aver ricevuto il premio Nobel per la Pace, a un giornalista che gli chiedeva se riteneva di essere la vera reincarnazione del XIII Dalai Lama, ha risposto: “Sembra che quando ero piccolo abbia dimostrato di riconoscere con grande esattezza gli oggetti appartenuti al mio predecessore. Ma, vede, a parte ciò, penso che in cinquantaquattro anni di vita sia riuscito a essere di qualche utilità al mio popolo. Questo è importante! Quindi, anche se non sono la vera reincarnazione, poco importa”» (Pisu). Già nel 1968, intervistato da Oriana Fallaci, aveva dichiarato: «Alla reincarnazione, sa, o ci si crede o non ci si crede. Essa non è dimostrabile, essa è un atto di fede. Io ho quella fede. […] Fatta questa premessa, aggiungo qualcosa che la stupirà: non sono affatto convinto d’essere la reincarnazione del tredicesimo Dalai Lama. O non necessariamente. Forse sono la reincarnazione di un qualsiasi lama, o di un contadino. Che importanza ha? Non va bene lo stesso? Crediamo alla democrazia, sì o no?» • «“Io se potessi scegliermi un mestiere farei il tecnico. Anzi, il meccanico. L’ho sempre pensato. Fin da bambino. […] Credo che sia incominciato con quell’automobilina. Quand’ero bambino mi giungevano molti regali, da ogni parte del mondo. Ma in massima parte erano oggetti preziosi, e non mi interessavano. Poi, un giorno, arrivò quell’automobilina. È la cosa che ricordo meglio della mia infanzia: il resto è così confuso. Ricordo ad esempio le cerimonie e le danze che seguivo dietro una cortina di garza. Ricordo un vago desiderio di stare coi bambini: non vedevo mai bambini. Ricordo un inconfessato bisogno della mamma; non vedevo la mamma che velocemente, una volta al mese o ogni due mesi. Ricordo che la reggia di Pothala non mi piaceva e preferivo quella di Norbulingka perché c’erano i pesci e gli uccelli e poi c’era un orto dove si coltivavano cavoli immensi e ravanelli giganti. Io mi divertivo a correre intorno ai cavoli. Ma su tutto questo si alza vittorioso il ricordo di quella automobilina. Quando la vidi non sapevo neppure cosa fosse, a cosa servisse. Ma sentii che era bella, più bella dei cavoli, dei ravanelli giganti, e con lei non avevo più bisogno degli altri bambini e della mamma. Camminava da sé. Cominciai a chiedermi come funzionasse, e perché. La disfeci e poi la rifeci. Da allora, tutte le volte che mi capitò una cosa meccanica, sentii il bisogno di disfarla e rifarla. Le cose meccaniche per me furono sempre una favola. Anzi, furono la mia favola”. Ebbe altre favole dopo quella automobilina? “Sì, perché si seppe che amavo le favole, e così presero a inviarmi le favole. […] E poi scoprii in un magazzino di Lhasa quelle tre automobili vere. Erano state inviate in dono al mio predecessore, che credo non le usasse mai. Erano due Baby Austin del 1927, una celeste e una rossa e gialla, poi una Dodge del 1931, color arancione. Giacevano lì arrugginite. Trovai un giovane tibetano che aveva fatto l’autista in India, e col suo aiuto rimisi insieme la Dodge. Poi, mischiando i pezzi delle due Austin, riuscii a mettere insieme anche una Austin. Per me fu più eccitante di una discussione di dialettica. Il giovanotto mi insegnò anche a usarle: fu una grande felicità quando riuscii a muovere per la prima volta un’automobile. Ma la favola più bella per me è sempre stata l’elettricità. Avevamo un generatore elettrico a Norbulingka. Si rompeva sempre, e credevano che si rompesse per disgrazia. Invece ero io, che lo rompevo per accomodarlo. Sarei stato un grande meccanico e anche un grande elettricista, se il destino fosse stato diverso con me”» (Fallaci).