La Stampa, 5 luglio 2019
Che cosa cercano gli americani in Libia
Il Consiglio di Sicurezza dell’Onu mercoledì sera non ha potuto condannare l’attacco lanciato dalle forze di Haftar a Tajoura, come chiedeva la Gran Bretagna, perché gli Stati Uniti lo hanno bloccato. Ciò dimostra l’esistenza di una nuova dinamica, che paralizza le iniziative per fermare la guerra in Libia e tornare al processo politico, e si somma alle spinte finalizzate alla sostituzione dell’inviato speciale del Palazzo di Vetro Ghassan Salamé, che dopo due anni di mandato sembra ormai arrivato alla fine della sua esperienza.
Londra aveva presentato una dichiarazione che condannava il bombardamento, sollecitando le parti «all’immediata de-escalation della situazione, e ad impegnarsi per un cessate il fuoco». Gli Usa hanno impedito l’adozione, nonostante il dipartimento di Stato avesse definito «ripugnante» l’attacco di Tajoura. Fonti diplomatiche molto informate spiegano così la nuova dinamica in corso. Durante il suo incontro con Trump, il leader egiziano Al Sisi aveva esaltato Haftar come eroe della lotta al terrorismo, in particolare contro i Fratelli Musulmani. Il capo della Casa Bianca allora aveva deciso di chiamarlo. Così aveva scavalcato tutti i suoi collaboratori, incluso il segretario di Stato Pompeo, cambiando la linea e appoggiando il generale. Ma Pompeo e il resto dell’establishment, che conoscono bene Haftar da quando era negli Usa, non pensano che lui possa essere la soluzione. Non amano neppure Sarraj, ma credono che comunque l’unica via percorribile sia il processo politico gestito dall’Onu, al netto delle operazioni specifiche di anti terrorismo che hanno sempre fatto, e continueranno sempre a fare. Così ora si è creata questa dicotomia, che anche mercoledì sera ha paralizzato il Consiglio di Sicurezza. Pompeo ha condannato l’attacco di Tajoura, ma i diplomatici americani non potevano avallare una presa di posizione contro Haftar all’Onu e la richiesta di cessate il fuoco, perché ciò li avrebbe messi in contraddizione aperta con la Casa Bianca. Dopo la telefonata di Trump col generale, nell’amministrazione è cominciato un lento «ricalibramento» della linea sulla Libia, per tornare ad appoggiare il processo politico. Ma fino a quando non sarà completato, i diplomatici Usa non potranno appoggiare nuove iniziative per riavviare il processo politico. Nel frattempo naturalmente Russia e Francia tacciono soddisfatte, perché tanto ci pensa l’America a proteggere il loro alleato Haftar.
Gli inglesi sono infuriati. Londra è contro il generale e vuole la ripresa del processo politico, ma non può andare apertamente allo scontro con Washington. Quindi ha presentato la dichiarazione di mercoledì, ma nello stesso tempo ha invitato i suoi diplomatici all’Onu ad avere pazienza, e aspettare che gli Usa completino il «ricalibramento». Su tutto questo pesa molto anche l’imbarazzo per le armi americane finite nelle mani di Haftar. Fonti diplomatiche notano che ci sono armi di tutti i tipi che vanno ad entrambe le parti, però gli Usa sono in difficoltà, se i loro mezzi vengono usati dal generale per ammazzare i civili. Washington ha aperto un’inchiesta per appurarne la provenienza, ma anche questo complica il ricalibramento e il ritorno al processo politico.
Sullo sfondo poi c’è la posizione sempre più incerta di Salamé. Compete al segretario Guterres sostituirlo, ma sul terreno non accade quasi più nulla e serve una iniziativa più energica. Al Sisi non parla con Salamè perché lo considera un alleato dei Fratelli Musulmani. Lui risponde che è costretto a sostenere Sarraj, perché è l’inviato dell’Onu e quindi deve appoggiare il governo legittimamente riconosciuto dall’Onu. La paralisi così diventa sempre più evidente e la guerra continua.