Il Messaggero, 5 luglio 2019
Intervista allo stilista Alber Elbaz
Sembra un personaggio uscito da un fumetto e i capelli che ha tinto biondo platino da un po’ lo fanno entrare ancor di più nello stereotipo del personaggio. Molti dicono che assomiglia a un clown. Ma, Alber Elbaz, come tutti i clown, sa far ridere e anche pensare, sa indossare la maschera con la bocca atteggiata a sorriso e quella che curva verso il basso. Sornione, racconta di qualche ferita che la vita gli ha inferto e poi sa scherzare delle sue delusioni. Israeliano, 58 anni, un curriculum da stilista di tutto rispetto, ha appena inaugurato una collaborazione con Tod’s per la capsule collection Happy Moments, esplosione di colori e ironia in formato scarpe, borse e t-shirt per tutta la famiglia.
È così universalmente amato e stimato che l’intero fashion siystem si sdegnò quando, nel 2015, si interruppe il suo rapporto di 14 anni come direttore creativo di Lanvin. Un’icona amata anche dai più giovani, che, quando chiedono una foto con lui, si sentono rispondere: «Va bene, ma solo selfie». «Sono ossessionato dal lavoro, mi piace. E mi piace parlare coi giornalisti, anche se adesso vogliono sempre sapere il tuo punto di vista. Proprio un giornalista ha fatto conoscere me e Della Valle».
Come è nata questa collaborazione?
«Diego Della Valle e io amiamo la buona tavola. Mi ha invitato da lui per mangiare un piatto di pasta, specificando che non sarebbe stato per lavoro».
Ma poi l’ha coinvolta in questo progetto.
«Dietro il muro di cemento della sede Tod’s ho incontrato un gruppo di artisti e di artigiani che lavora sodo con le mani e il cuore». C’è un pezzo che preferisce?
«Difficile, sarebbe come chiedere a una madre chi è il suo preferito tra i figli».
Ma è partito dalle scarpe.
«Si, quando vieni a Parigi, dove vivo, ci sono tante strade solo per i pedoni. Le calzature sono le nuove auto. È così che ho immaginato questo progetto. Volevo anche cambiare la suola della scarpa senza mutare l’anima di Tod’s. Non mi piace distruggere un’azienda e i suoi simboli quando ci entro».
Per rimanere in tema di cibo, ha seguito una ricetta?
«Intuizionee passione guidano la mia mano. Sono pronto a vincere così come a perdere, ma essendo consapevole di aver fatto una cosa per cui mi batte il cuore».
Crede nell’amore?
«Non ci credo più. Credo nel rispetto e nella fiducia, che si crei un rapporto. Dopo, forse, può anche nascere l’amore, ma mai il contrario».
Parla da persona che ha sofferto.
«Ho una ferita che mi percorre tutto».
Cosa ha imparato in questi ultimi 4 anni?
«Amo molto la moda e mi sono chiesto dove stia andando. Ho tenuto delle lezioni e ho capito molte cose dai giovani. Credo che i team creativi dovrebbero essere composti non da persone simili, ma proprio da individui di età, generi, nazionalità diversi affinché ci sia un confronto e un dialogo».
Cosa pensa dei Millenials, nuovo eldorado della moda?
«Li amo, ma sono fan di chiunque sia bello dentro. Non dobbiamo dimenticare che questi ragazzi hanno tutti dei genitori e dovremmo pensare anche a loro. Si parla anche della Cina come nuovo mondo, dovremmo avere bene in testa che parliamo di persone e non di mercati».
Cosa è cambiato nella moda?
«È cambiato il mondo, anche il semplice modo di vedere un film, come con Netflix o Amazon, ma anche di ascoltare musica. Bisogna andare verso la gente e non pensare che venga verso te. Sono cambiati donne e uomini e anche il loro modo di acquistare. Le signore comprano con un semplice touch, la sera, dal letto».
Siamo più algoritmo o intuizione?
«Qualche tempo fa sono stato nella sede Google di Londra. È un palazzo grande, con pareti alte e grigie. Ci sono anche due divani: uno rosa e uno azzurro. Ho chiesto al mio amico che lavora lì e che mi aveva fatto entrare il perché di questa scelte di mobilio, che non comprendevo. Mi ha risposto che non aveva mai fatto caso ai colori dei sofà. Ecco, questo vuol dire che non possiamo delegare tutto alla matematica».
Voleva da sempre lavorare nella moda?
«No, volevo fare il medico»