Il Sole 24 Ore, 5 luglio 2019
Così gli Usa hanno scatenato una battaglia navale
Sei petroliere bloccate per novanta giorni, in difficoltà persino a servire i pasti all’equipaggio, un giacimento nel mare Adriatico costretto a interrompere la produzione per oltre due mesi. E uno storico armatore italiano costretto a ricorrere al concordato preventivo per sopravvivere alla paralisi delle sue attività.
La vicenda della PB Tankers – appena «assolta» dagli Stati Uniti, che l’avevano accusata di aiutare il Venezuela di Nicolas Maduro –è un caso esemplare dei danni collaterali provocati dalle sanzioni americane: strumento che da quando Donald Trump è alla Casa Bianca Washington impiega con severità inflessibile, soprattutto contro alcuni Paesi, come il Venezuela e l’Iran, e senza guardare in faccia nessuno.
La PB Tankers, società della famiglia siciliana Barbaro, con oltre cent’anni di attività nei trasporti petroliferi via mare, è rimasta vittima delle sanzioni secondarie (o extraterritoriali), riservate a soggetti non statunitensi: misure oggi sempre più frequenti, che colpiscono con la velocità e l’imprevedibilità di un fulmine, talvolta sulla base di semplici sospetti. Si può anche essere scagionati, se si dimostra di non aver commesso nulla di illecito o di aver agito in buona fede. Ma nel frattempo sono dolori.
PB Tankers oggi festeggia l’uscita dalla lista nera dei soggetti sanzionati dagli Usa: il «delisting più rapido nella storia recente», sottolinea a nome dell’armatore Pat Adamson, presidente di Mti Network, società esperta di crisis management cui è affidata la comunicazione sul caso. Un risultato arrivato grazie allo spirito collaborativo dell’armatore e all’appoggio discreto del Governo italiano. Ma per quasi tre mesi PB Tankers ha dovuto sopportare un marchio infamante: la presenza in una blacklist in cui, tra i soggetti italiani, figurano la camorra e ’ndrangheta. È la Specially Designated Nationals List dell’Ofac (Office of Foreign Assets Control), agenzia governativa che si occupa di far rispettare le sanzioni Usa. Chi ci finisce dentro – innocente o meno – diventa un paria: gli eventuali beni negli Usa vengono sequestrati, fare operazioni in dollari diventa impossibile e usare altre valute difficilissimo, perché banche e altri intermediari hanno comunque paura di ritorsioni da parte di Washington.
«La funzione dell’Ofac è dare avvertimenti amichevoli – rassicura John E. Smith, che ha presieduto l’agenzia fino ad aprile dell’anno scorso – Oltre il 95% delle apparenti violazioni finiscono con l’archiviazione, senza sanzioni né ulteriori indagini». Smith, a margine di un convegno organizzato da Edison, ci tiene precisare che nessuno dei suoi commenti è riferito a casi specifici. Ma avverte che negli Usa il vento è cambiato: «Le società che operano sul mercato globale devono capire che se fanno affari con certi Paesi corrono gravi rischi. In questo momento consiglio in particolare di evitare errori con l’Iran».
Con l’amministrazione Trump l’Ofac è diventato uno sceriffo senza frontiere, che agisce anche contro chi non condivide le regole degli Usa. Oggi l’Europa non ha in vigore sanzioni contro l’Iran, ma nessuno osa toccare il petrolio della Repubblica islamica. Almeno, non alla luce del sole.
È di ieri il sequestro militare della petroliera Grace 1 al largo di Gibilterra, ufficialmente perché violava le sanzioni europee contro la Siria, ma quasi certamente anche perché trasportava greggio iraniano. A giugno un’altra nave era stata al centro di una vicenda paradossale nel Mediterraneo. Si tratta della White Moon, respinta dall’Eni perché il suo carico – acquistato dalla nigeriana Oando – non rispettava le caratteristiche qualitative del greggio iracheno Basrah Light, che in teoria stava trasportando. Questa almeno è la spiegazione ufficiale.
La Suezmax – rimasta di fronte alla raffineria di Milazzo (Eni-Kpc) per tre settimane, con probabili costi di demurrage di almeno un milione di euro al giorno – rischiava di avere a bordo anche barili di origine iraniana. Diverse società che monitorano le attività delle petroliere con satelliti e altre tecnologie sono certe che la White Moon sia stata avvicinata al largo dell’Iraq da un’altra petroliera, la New Prosperity, e che sia avvenuto un trasferimento di carico ship-to-ship. «Queste manovre sono tra i metodi più usati da Teheran per aggirare le sanzioni», spiega Florian Thaler, ceo di OilX, una di queste società, che impiega anche tecnologie sviluppate dal Politecnico di Milano. «Lo ship-to-ship è facile da effettuare di fronte a Bassora, un’area con grande traffico di navi».
Il ministro iracheno del Petrolio Thamer Ghadhban, intervistato dal Sole 24 Ore a margine del vertice Opec, respinge ogni sospetto di complicità: «È completamente falso (che Baghdad aiuti l’Iran a esportare, Ndr). Noi esportiamo solo petrolio nostro». E la storia della White Moon? «Fake news. L’Eni ha commesso un errore, ha creduto di comprare greggio iracheno ma non era così».
Per PB Tankers non era facile prevenire i rischi. Una delle sue navi, la Silver Point, in effetti trasportava prodotti raffinati tra Venezuela e Cuba. Ma da tre anni era noleggiata a una società cubana, la Cubametals. Ora è quest’ultima nella blacklist degli Usa, mentre il gruppo italiano ne è uscito, una decisione che deve servire da esempio, dice il segretario al Tesoro Usa Steven Mnuchin: «Un cambiamento positivo nel comportamento può portare a un sollievo dalle sanzioni». La possibilità di chiarire la situazione è però arrivata solo dopo le sanzioni. Quando Washington si è accorta della Silver Point, lo scorso 12 aprile, non solo l’ha bloccata, senza nemmeno avvertire la PB Tankers. Ma ha messo in blacklist la società italiana, con tutta la sua flotta. Tre navi si sono fermate vicino alle Bahamas, una al largo di Istanbul, un’altra nel porto di Rotterdam. La sesta, una nave da stoccaggio, era l’Alba Marina, ancorata dal 2012 di fronte alle coste abruzzesi a servizio di Rospo Mare, giacimento controllato da Edison, che per quasi due mesi ha dovuto fermare la produzione: gli assicuratori si erano tirati indietro.