Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2019  luglio 05 Venerdì calendario

L’avventura coloniale in Libia raccontata da un bambino

La storia del colonialismo italiano in Libia si riassume in un aggettivo: precario. L’occupazione della Cirenaica e della Tripolitania non fu mai completa e stabile. All’inizio - dopo la guerra contro la Turchia del 1911-12 - gli italiani si stabilirono lungo le coste, con appena un velo di presidi militari, mentre all’interno le popolazioni indigene continuavano a vivere indisturbate secondo i loro usi tradizionali. Poi, con la «riconquista» avviata dal fascismo, tra il 1928 e il 1932, l’occupazione si fece più pesante, adottando metodi che, quanto a brutalità, non avevano niente da invidiare a quelli usati dalle altre potenze europee: deportazione dei civili, rinchiusi in disumani campi di concentramento; sterminio programmato dei ribelli e di chi li aiutava; durezza repressiva e strangolamento dell’economia locale. 
Alla fine, nella Libia così «pacificata», iniziò l’avventura della colonizzazione vera e propria, con migliaia di contadini italiani (pugliesi, calabresi, abruzzesi, soprattutto), trasportati dall’altra parte del Mediterraneo per coltivare i campi e rendere fertili con il loro lavoro quelle terre inospitali. Durò poco meno di dieci anni: nel 1943, la rovinosa sconfitta militare del fascismo pose praticamente fine alla nostra presenza.
Ma questa storia, arcinota, è come una rete da pesca a maglie troppo larghe. Trattiene i pesci grossi, gli eventi politici e militari che scandirono quel periodo, ma si lascia sfuggire quelli di taglia minore, le migliaia di piccole storie vissute da quanti furono coinvolti nei deliranti progetti mussoliniani e che furono scaraventati, inconsapevoli, nel tragico vortice della Seconda guerra mondiale. A raccontare molte di queste storie, per fortuna, sono i diari raccolti a Pieve Santo Stefano, una fonte insostituibile per chi di quelle vicende voglia ricostruire anche il profilo dal basso, penetrando nel vivo del tessuto emotivo e dei risvolti soggettivi dei protagonisti. 
Felice Barbieri è uno di questi. Nato nel 1929 ad Aielli, in provincia dell’Aquila, quarto figlio di un contadino, dopo il trasferimento in Cirenaica del capofamiglia, partito in avanscoperta assieme al figlio Rodolfo, lo raggiunse nel 1934, con la mamma e le due sorelle. Stabilitisi nei pressi di Beda Littoria, gli abruzzesi migliorano considerevolmente la loro situazione economica, coltivando terre e allevando bestiame; all’inizio del 1942 i Barbieri avevano ben nove figli. Furono anni sereni quelli dell’infanzia che Felice – negli anni 80 del Novecento, ormai vecchio - affidò alle pagine del suo diario. I ricordi erano quelli di un bambino, colorati dalla tenerezza nei confronti di una sorta di età dell’oro. Niente tragedie, ma solo scoperte, curiosità stupori.
Era una prospettiva che oggi al lettore lascia come un senso di straniamento: non ci sono i drammi della grande storia, mentre c’è posto per i sentimenti di chi guarda con occhi incantati una realtà mai nemmeno immaginata. L’emozione del viaggio, anzitutto, quello in treno («Il convoglio si mosse e tutti ci assiepammo vicino ai finestrini per godere dello spettacolo causato dall’effetto della velocità, pali telegrafici che correvano all’inverso della nostra direzione») prima ancora di quello in nave. Poi il primo giorno di scuola («Era d’obbligo presentarsi con la divisa. Io indossavo quella di "figlio della lupa" e questo mi incuteva un senso di orgoglio, pantaloncini grigioverde, camicetta nera con cinturone bianco che si incrociava sul petto al centro del quale faceva bella mostra un grosso medaglione con l’effige del Duce»), le amicizie con i ragazzini indigeni («Durante le vacanze mi recavo di nascosto nella tenda del mio compagno di scuola, benché i miei me lo avessero tassativamente proibito. I genitori di questo ed altri bambini arabi erano molto ospitali e questo per me equivaleva ad un invito»), il compiacimento per un’agiatezza mai sfiorata prima («L’estate di quel 1936 si ebbe un abbondante raccolto, papà era entusiasta, a volte si piazzava in mezzo ad un campo di frumento, all’orto o in altri posti con le mani ai fianchi e spaziava girandosi su sé stesso con espressione felice, pensando "finalmente ho un terra tutta mia"»).
Oggi però lo sappiamo. il sogno di Felice e della sua famiglia fu spento sul nascere. Nel 1940 arrivò la guerra: «Uscendo dalla scuola ed in compagnia di altri alunni, ogni giorno ci recavamo, prima di tornare a casa, ai bordi della litoranea per assistere alla spettacolare sfilata delle truppe che viaggiavano in direzione di Tobruk. Serpenti di camion stracarichi di soldati percorrevano il lungo nastro d’asfalto fiancheggiati da bersaglieri in bicicletta, ed ancora da soldati appiedati che camminavano stancamente nei bordi della carreggiata». 
Sotto l’incalzare degli inglesi e travolti da una sequenza micidiale di sconfitte militari, i bambini dei coloni italiani furono i primi a essere rimpatriati: «Al porto di Derna eravamo saliti a bordo millecinquecento bambini più qualche centinaio di adulti, per lo più famiglie intere. Eravamo tutti molto stanchi perciò ognuno prese posto sul proprio materassino...». Era finita. Il papà e il fratello, rimasti strenuamente a difendere il podere libico, saranno sgombrati con la forza e torneranno in Italia anche loro. Poveri come quand’erano partiti, abbandonati dal regime ormai allo sfascio.
Cosa è rimasto di quella vicenda? Poco o niente: la Libia di oggi, precipitata nell’orrore della guerra civile, è irriconoscibile. E l’emigrazione ha invertito i suoi flussi: oggi il cammino della speranza si svolge a ritroso; dalle coste libiche all’Italia, un viaggio all’incontrario rispetto a quello di Felice. Attenzione, però: il fascismo si rifiutò di chiamare migranti i nostri contadini trasferiti in Libia: non doveva essere più la miseria a spingerli a partire ma l’orgoglio di sentirsi colonizzatori; una rappresentazione della realtà che si sostituiva con i suoi miti alla durezza della realtà. Un artificio propagandistico che ha sedotto tutti i regimi totalitari del secolo scorso e che torna a far sentire il suo fascino anche nelle democrazie del post Novecento.