Il Messaggero, 5 luglio 2019
Qualunque cosa è bella se dici che lo è
Non siamo fatti per essere felici. Me lo disse una volta mio padre Casey, tagliandomi a pezzetti un hamburger mentre il profumo che aveva appena spruzzato nell’aria si posava sulle nostre spalle. Indossavamo tutti e due un completo scuro, e il suo aveva un fazzoletto a colori vivaci che gli spuntava dal taschino della giacca. «Però, tesoro mio», aggiunse, con le guance che gli si increspavano in un sorriso. «Siamo fatti per provarci. Siamo fatti per provarci».
Io non sapevo cosa pensare di quell’affermazione. Avevo sei anni, ero cocciuto e fradicio di sudore dentro quel completo. Non ero mai stato in una tavola calda e l’odore di sigarette e caffè mezzo bruciato mi dava la nausea: ecco perché mio padre Casey ci aveva inondati di profumo. Ma ricordo tutto.
IL GESTO
Ricordo il gesto vezzoso con cui si spiegò il tovagliolo di carta in grembo, e ricordo che tirò fuori le mie vitamine a forma di pupazzetti dei Flintstones e le sistemò come un piccolo presepe sul portatovaglioli, e quanto risi. I suoi baffi curati e il leggero tremolio delle narici che era l’unico segno del suo cordoglio. Ricordo tutto perché ero sperso, terrorizzato, ero un bambino in attesa di nuove istruzioni per stare al mondo, in attesa che mio padre mi guidasse.
Lui in realtà non era il mio vero padre. Ecco perché lo chiamo sempre mio padre Casey.
Il mio vero padre, Rex, era steso in una bara, diversi metri sottoterra, e solo mezz’ora prima Casey mi aveva permesso di guardare i retroescavatori che arrivavano a finire di riempire la fossa (all’epoca avevo la passione dei macchinari per l’edilizia). Come mai mio padre fosse arrivato ad avere me senza l’ombra di una madre nei paraggi non era una storia che a quella giovane età mi avessero raccontato per filo e per segno. Mio padre Rex, un uomo robusto con dei grossi baffoni alla Stalin, mi scompigliava i capelli con una mano forte e mi ammanniva sempre la stessa trita favoletta: una donna bellissima, un sacco di tempo fa, un ritorno in qualche paese straniero. Casey se ne stava accucciato lì vicino, a guardarci, stringendosi le mani come una ragazzina e annuendo con quello che ora interpreto come nervosismo: lui non faceva parte di quella storia. Era solo un fedele scriba che la sapeva tutta a memoria. La donzella dai capelli neri, i dipinti che desiderava tanto finire, la notte magica in cui ero nato. La storia finiva e i miei due padri si prendevano per mano, guardandosi negli occhi, poi guardavano me. Poi ci mettevamo a fare la lotta. Ma tutto questo non spiegava un accidente.
E quando mio padre Rex si ammalò di aids, non ci furono ulteriori elaborazioni sulla storia della mia nascita.
Il tempo passato con me assunse un’urgenza che mi spaventava; mio padre si allungava fuori dal suo letto da ospedale e mi sussurrava di portargli i miei camioncini. Li piazzavamo sulle lenzuola bianche come fossero un cantiere innevato, ma non mi sembrava davvero di giocare: i tubicini che uscivano dappertutto mi spaventavano, così come il trucco che si metteva in faccia per coprire il pallore e le lesioni.
ESIBIZIONE
Non era un gioco, era un’esibizione a comando per un re morente. Casey arrivava con qualcosa da mangiare, faceva una carezza sulla guancia a mio padre Rex, lo fissava e io venivo sopraffatto dal dolore per quel suo morire, dalla confusione in cui mi gettava, perché mi rendevo conto che con la sua morte io c’entravo ben poco: sembrava riguardare più che altro Casey. Lui guardava Casey come se quell’uomo snello e nerboruto tirasse i fili stessi della vita. Io, ovviamente, non gli offrivo nulla: potevo solo togliere i giocattoli per fare spazio al vassoio. Forse, in un certo senso, era giusto così. La storia della mia nascita era solo per Rex e per me; la storia della sua morte era solo per lui e per Casey. Morì di mercoledì, col sole caldo che gli batteva in faccia e credo, anche se non l’ho mai saputo per certo, che sia stato per mano sua o di Casey.
È terribile, immaginando quel bambino che alzava gli occhi a guardare il padre, sapere che poi, crescendo, mio padre l’ho odiato. Nei maschi è inevitabile. Non c’è un padre nella storia che prima o poi non abbia disgustato suo figlio, o per averlo amato troppo poco, o troppo, o da troppo lontano. Forse è una caratteristica degli esseri umani: le scimmie odiano il padre? E le api? Io ho odiato il mio: odiavo il fatto che andasse ad aprire la porta con quel kimono addosso, che quando i miei amichetti venivano a dormire da me lui corresse in ciabatte in mezzo ai nostri pigiama party strillando Non le voglio le grucce di ferro! e, cosa peggiore di tutte, che col passare degli anni diventasse lo speciale confidente di tutte le mie ragazze, che gli desse consigli quando gli telefonavano in lacrime, fino all’università, perfino dopo che mi avevano mollato e avevano trovato a loro volta qualcuno che gli aveva spezzato il cuore. Non si sa quante volte l’ho pregato di portare un hamburger invece che del sushi alle cene con la mia squadra di calcio: lui non mi ascoltava mai, mi guardava con gli occhi sbarrati, come faceva con gli stranieri di cui non capiva l’accento.
ONESTI
Ma, a voler essere onesti, credo che sia stato Casey a odiarmi per primo. Lo immagino, il primo anno che abitava con noi, assistere a uno dei miei capricci di quattrenne, un sabato sera, e ripensare alle serate in cui andava a ballare, oppure pulirmi il vomito dalle labbra a un angolo di strada dove un tempo si dava appuntamento con gli amici. La sua vita gli era stata rubata: si era reincarnata così. Immagino l’odio agitarsi nel petto, come l’acqua che sciaborda in una bacinella, o un cane che gira e rigira intorno alla cuccia prima di adattarsi una volta per tutte, rassegnato, a quella che sarà la sua vita d’ora in poi.
In quella tavola calda eravamo seduti uno di fronte all’altro, esausti dopo il funerale, avvolti dall’aroma del vecchio profumo di Rex. Casey mi sorrise e disse quella cosa sulla felicità, e mi lasciò mangiare in silenzio. E se c’era del dubbio nel suo cuore, prostrato dal lutto e ansioso di sfuggire ai ricordi del suo amore defunto, se c’era dello shock all’idea di dover allevare lui, adesso, il bambino che aveva davanti, non me lo diede mai a vedere.
Qualche minuto dopo, la cameriera arrivò a portare via i piatti. Io avevo a malapena mangiato qualche boccone. Lei guardò con curiosità il presepe di vitamine. Poi ci disse che quel pomeriggio noi due signori avevamo un ottimo profumo. Le sembrava di riconoscerlo, ci chiese se era Eternity.
«Magari, cara! Ci starebbe benissimo», le disse mio padre Casey facendo l’occhiolino. «Siamo giusto reduci da un funerale».
I clienti della tavola calda ci fissarono tutti mentre ridevamo. Mi ci sarebbero voluti anni prima di capire quelle occhiate, prima di trovarle imbarazzanti e di cominciare a odiare mio padre: all’epoca diedi per scontato che il mondo lo amasse quanto lo amavo io.