la Repubblica, 4 luglio 2019
Le bolle climatiche metropolitane
È come se in piena estate la metà degli abitanti del pianeta infilasse cappotto, sciarpa e cappello. Per chi abita in città ( il 55% degli esseri umani) il grado in più di temperatura offerto dal cambiamento climatico non basta. Bisogna aggiungerne altri 4: la differenza media fra ambiente urbano e campagna. Che possono raggiungere e superare i 10 nelle serate e nelle notti d’estate, quando il fenomeno delle” isole di calore cittadine” infligge il colpo di grazia a chi era già avvizzito per la canicola del giorno.
Perfino i satelliti riescono a identificare le città-forno e a misurarne le differenze di temperatura. Queste oasi al contrario, dallo spazio appaiono rosse come braci, con le chiazze nere dove si trovano i parchi. Né il caldo è l’unica caratteristica delle bolle climatiche metropolitane, entità meteorologiche aberranti, capaci addirittura di creare le proprie nuvole e la propria circolazione interna. Mentre infatti le brezze vengono respinte dagli edifici o dalle colonne d’aria calda che asfalto e cemento sollevano verso il cielo, un regime di venti interni a forma di anello porta continuamente in ricircolo gli inquinanti. Sia quelli primari, prodotti dai gas di scarico, sia quelli secondari, effetto delle reazioni chimiche fra gli inquinanti primari e i raggi solari. Reazioni a loro volta favorite dalle alte temperature. Se per sfuggire a questa perversione si mette mano al condizionatore, la trappola diventa perfetta. Per sottrarre il calore nella nostra stanza, l’apparecchio deve infatti restituirlo all’esterno. A una città come Tokyo, abituata a un uso intenso, l’aria condizionata regala un altro grado e mezzo in più. Ecco, ora è come se avessimo infilato anche i guanti di lana.
Luigi Mariani, agronomo all’università di Milano, ha studiato l’isola di calore del capoluogo lombardo con alcuni colleghi. «Da piazza Napoli, in città, al Comune di San Giuliano, a 24 chilometri di distanza, in una serata estiva siamo passati da 32 a 24 gradi. Ma bastano distanze minori per trovare le differenze. Dal parco di Cinisello abbiamo percorso poche centinaia di metri verso viale Suzzani, con gli strumenti montati su una bici, per passare da 30 a 24 gradi». La mancanza di verde è infatti il primo ingrediente delle isole di calore. Da un lato l’ombra della chioma impedisce all’asfalto di raggiungere i 60- 70 gradi cui il sole estivo facilmente lo porta. Dall’altro le foglie lasciano evaporare acqua dagli stomi, rinfrescando l’aria. «Gli alberi in città se la passerebbero anche bene se solo avessero terra per espandere le radici» spiega Mariani. «A Milano per via delle temperature più alte abbiamo calcolato un anticipo del germogliamento di venti giorni e un ritardo equivalente nella caduta delle foglie. La ricchezza di anidride carbonica fa sviluppare meglio le piante, che in città a volte sono davvero lussureggianti». Bitume, cemento e mattoni, al contrario del verde, di giorno immagazzinano il calore del sole per cederlo gradualmente, e senza tregua, di notte. Proprio come i termosifoni di ghisa, quelli a rilascio lento.
Ma non c’è bisogno di abitare in una grande città per ritrovarsi in un’isola di calore. La fisica Michela De Maria dell’università Iuav di Venezia, con i colleghi del Laboratorio di fisica tecnica ambientale ha misurato differenze di temperatura di 7 gradi fra il centro e la periferia di Mestre ( 180mila abitanti). «Prima del riscaldamento globale non si prestava attenzione al fenomeno. Ma dal 2017 i nuovi regolamenti sugli appalti pubblici impongono di usare per tetti e pavimentazioni urbane materiali con un indice di riflettività solare superiori a 29. L’asfalto, per fare un confronto, ha 21 e la vernice bianca 100». Far rimbalzare via la radiazione solare è una soluzione per mitigare il caldo.
Ma fra i palazzi i raggi solari si infilano, rimpallando fra un muro e l’altro, per restare intrappolati nel cosiddetto” effetto canyon”. «Quello che conta è il cosiddetto “fattore vista del cielo” – spiega Marco Noro, ingegnere dell’università di Padova che misura la porzione di cielo visibile. Più è ampia, più ci sarà dissipazione di calore». Noro e i suoi colleghi hanno percorso le vie di Padova dal centro alla periferia con gli strumenti meteo montati sull’auto. «Abbiamo misurato 8 gradi di differenza» racconta. «Negli Stati Uniti, per assorbire meno il calore del Sole, si prova a dipingere i tetti di bianco» spiega Teodoro Georgiadis, del centro di biometeorologia del Cnr a Bologna. «Ma immaginiamo di proporre una misura simile da noi, cancellando gli storici mattoni rossi. Ci sarebbe giustamente una rivolta». Franco Cotana, ingegnere dell’università di Perugia, ha sperimentato alcune coperture riflettenti in varie città d’Italia: «Sul tetto di una stazione di servizio autostradale a Fiorenzuola o su quello di un grande supermercato a Novara. Per la precisione, i nostri materiali sono retroriflettenti, come i catadiottri delle biciclette. Non restituiscono la radiazione in ogni direzione, ma solo in quella da cui proviene il Sole». Parigi e Friburgo hanno scelto di far scorrere rivoli d’acqua lungo le strade, per pulire oltre che rinfrescare. «Ma è sempre un andare controcorrente» aggiunge Mariani.
«Le nostre città dal medioevo sono state costruite per proteggersi dal freddo invernale. Nessuno aveva mai immaginato di doversi difendere dal calore in eccesso». E invece oggi, racconta Antonello Pasini dell’Istituto sull’inquinamento atmosferico del Cnr, esistono città costrette a mettere il coprifuoco nelle ore torride. «A Los Angeles o Lima si chiede ai cittadini più fragili di non uscire in determinati orari, se l’aria è piena di ozono. La misura riguarda soprattutto anziani, bambini, asmatici e chi soffre di malattie cardiovascolari». Ma altre malattie come diabete, Parkinson o Alzheimer diventano più gravi, per chi è immerso nella bolla di calore metropolitana.