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 2019  luglio 04 Giovedì calendario

Tutto su Italia-Germania 4-3

In questo nostro tempo in apparenza orfano di miti e di eroi, le gesta epiche dei pacifici eredi di Ettore e Achille si registrano in linea di massima nel campo degli eventi sportivi, e nel migliore dei casi finiscono al cinema: vedi Borg McEnroe, il recente film di Janus Metz sulla rivalità tennistica tra il campionissimo svedese e il ribelle americano, o quel Rush di Ron Howard sull’antagonismo automobilistico tra James Hunt e Niki Lauda. Ma noi italiani siamo impastati innanzitutto di calcio, e nella nostra memoria collettiva si sono sedimentate in particolare due partite. 
La prima è stata la semifinale di Messico ’70 allo stadio Azteca di Città del Messico, quell’Italia-Germania 4-3 che raccontata in tivù da Nando Martellini e alla radio da Enrico Ameri fu la prima Partita del Secolo. L’altra è il quarto di finale disputato sempre dall’Italia contro il Brasile nell’82 all’interno del catino bollente dello stadio Sarriá di Barcellona e al cospetto di commentatori quali Gianni Brera e Mario Vargas Llosa. E mancando un film su quel match, ci ha pensato Piero Trellini col suo La partita (in uscita per Mondadori, pp. 624, € 29): monumentale omaggio a quello che per lui, classe 1970, è stato il match indimenticabile del passaggio dall’infanzia all’adolescenza, fermo restando che per Time si è trattato della «partita più bella della storia del calcio». 
Vi chiederete come sia possibile eguagliare la mole di Moby Dick scrivendo di ventidue uomini che prendono a calci un pallone. Semplice: il football si sa è metafora della vita («semplifica i concetti che strutturano la nostra esistenza: giustizia, fatalità, ragione, istinto, compassione, furbizia, riconoscenza, moralità»), e Trellini s’è preso la briga di scandagliare tutto lo scandagliabile riguardo ai protagonisti di quella sfida andata in scena alle cinque del pomeriggio, che in Spagna è l’ora della corrida e dunque della morte. 
Era il 5 di luglio. L’Italia, guidata da Bearzot e reduce sì dalla vittoria contro i campioni del Mondo dell’Argentina ma anche da ottavi assai deludenti (Oliviero Beha ventilò la combine con il Camerun), sembrava la vittima predestinata di un Brasile tra i più forti di sempre, capace di schierare Junior, Falcao, Socrates e Cerezo, per tacere di Zico. Noi avevamo in porta Zoff, che in molti davano sul viale del tramonto, e in attacco Paolo Rossi, che dopo la squalifica per lo «scandalo del calcioscommesse» era stato convocato tra lo scetticismo di tutti i ct riuniti nei bar sport del Paese. 
Eppure accadde l’incredibile. Zico andò a sbattere contro Gentile (alias Gheddafi, o il Gento, o il Saladino, che si fece crescere i baffi scommettendo con i giornalisti assai scettici che l’Italia sarebbe arrivata tra le prime quattro), e Rossi – rimasto a secco fino a quel pomeriggio – si sbloccò segnando una tripletta, così da rendere inutili le reti di Socrates e Falcao. Quanto a Zoff, fu una sua parata a salvare il risultato, visto che per arrivare in semifinale al Brasile sarebbe bastato un pareggio. 
Trellini, che scava come uno speleologo portando alla luce ogni sorta di particolare inedito - dall’arbitro israeliano Klein, scampato alla Shoah e che aveva da poco perso un figlio in guerra, di cui l’autore conserva gelosamente il fischietto utilizzato in quella partita, al brasiliano presidente della Fifa Havelange, nato nel 1916 grazie al fatto che quattro anni prima suo padre aveva perso il traghetto che doveva portarlo a imbarcarsi sul Titanic – non è d’accordo: «Quel Brasile era bello come un dio e solo come tale aveva il suo tallone. Non era un giocatore. La sua debolezza era nella condizione stessa della bellezza. La fragilità». Una tesi degna di Scott Fitzgerald. 
Tra riferimenti alla battaglia di Maratona, che segnò la fine della dominazione persiana, e al Giotto autore della Cappella degli Scrovegni, che diede il via alla modernità («Bearzot, battendo il Brasile, non solo gli impedì di conquistare il quarto titolo, ma piegò ad angolo retto la storia del calcio. Che da quel giorno perse in leggerezza ma guadagnò in impegno»), Trellini incrocia figure indimenticabili, da Beppe Viola (respinto a scuola) a Italo Allodi (esiliato a Coverciano dopo che Bearzot diventò direttore di tutte le Nazionali della Federcalcio), e con loro Pertini e Spadolini, Agnelli e Arpino, Berlusconi e Soldati, Matarrese e Gheddafi. 
E componendo tessera dopo tessera questo mosaico fatto di campioni e giornalisti, dirigenti e accompagnatori, aneddoti e storie (anche non calcistiche, compresa quella di Giulia Maria Crespi che molti anni prima di quella partita fu tra i primi a vedere in casa di amici l’anteprima di La dolce vita) e perfino palloni (il Tango Adidas fu l’ultimo di cuoio a essere usato in una Coppa del Mondo), non si limita a ricostruire un incontro di calcio o a rievocare un’epoca, ma ci regala un’escursione nella nostra giovinezza. Quando l’Italia – non solo quella di Bearzot – ci sembrava migliore.