La Stampa, 4 luglio 2019
Intervista a Laurie Anderson
La conversazione con Laurie Anderson è disturbata, le parole arrivano a scatti, frammiste a rumori e segnali elettronici. Una specie di performance telefonica per un singolo spettatore: ma domani, a Villa Arconati, lo show sarà per il pubblico del Festival Terraforma. «Ho accettato perché mi piace quello che fanno, c’è musica, seminari, conferenze. E il mio The Language of the Future è una performance che mescola narrazione, musica (violino elettrico e orchestra digitale) e video. Parlerò di cosa succede nel mondo e di storie personali, ma non so davvero come andrà a finire». A 72 anni, Laurie Anderson è una leggenda dell’avanguardia. Nata a Chicago, vive da sempre a New York, e oggi ha alle spalle decine di album, centinaia di concerti e performance, una vita intera a prendere posizione, discutere, riflettere. The Language of the Future è stato concepito nel 1984, ma in tutti questi anni è cambiato ogni volta: «Il fulcro è l’improvvisazione».
Cosa vuol dire improvvisare?
«Cerco di essere nel presente, penso che molti, me compresa, abbiano problemi col presente, impegnati come siamo a preparare un piano per i prossimi dieci minuti, o analizzare quel che abbiamo fatto mezz’ora fa. L’improvvisazione ti costringe a essere nel presente».
E il presente per definizione cambia sempre...
«C’è un mondo nuovo ogni giorno, e per esprimerlo serve un linguaggio nuovo».
Quello di oggi però sembra modellato sulla contrapposizione tra un «noi» e un «loro», nel calcio come nella politica. «È terribile, ed è un fenomeno che si diffonde in tutto il mondo. Il linguaggio è polarizzato, c’è solo bianco o nero. Ed è prima di tutto nel linguaggio che avvengono le violenze e si moltiplicano le diseguaglianze».
C’è una via d’uscita?
«Io ne vedo solo una: smettere di parlare per qualche minuto. Quando due persone discutono, quasi mai si tratta di una conversazione: tutti urlano, e talvolta succede anche a me, se credo di avere ragione. Invece bisognerebbe reimparare uno dei primi insegnamenti della filosofia, cioè provare a mettersi dall’altra parte, capire che ogni situazione va vista da diverse prospettive».
Ma davvero è colpa dei social network?
«Non lo so, so solo che negli Anni 70 scrivevo di linguaggio digitale, basato su due soli stati, acceso/spento, uno/zero. E ora sembra che il nostro linguaggio umano si stia modellando su quello digitale, nel frattempo però diventato molto più complesso e flessibile».
La tecnologia è il problema?
«C’è chi ritiene che la tecnologia sia in grado di trovare una soluzione per tutto, ma se pensi che la tecnologia risolva i problemi, non comprendi né la tecnologia né il problema».
Però le aziende hi tech hanno imposto un vocabolario di forme e modi di comunicare. «Controllare il linguaggio è controllare il mondo, e trovo terrificante come certe aziende oggi influenzino la società. Facebook, Google, Twitter: cominciano tutti con la stessa frase, noi rispettiamo la comunità. La comunità è la parola d’ordine, ma la comunità, il senso di appartenenza a qualcosa, è anche quello che vendono, con appiccicato sopra il marchio dello sponsor».
E lo vendono a noi stessi.
«Esatto. C’è gente che va in un museo e poi passa il tempo a leggere i post su Instagram del museo dove si trova. Certo, oggi i visitatori sono più numerosi, e questo è un bene, ma l’idea di arte è spesso semplicistica. Non tutta l’arte si può rendere semplice, non tutte le parole sono destinate a finire in uno slogan, per fortuna».
Ma il linguaggio è un virus, come sosteneva anni fa citando William Burroughs?
«Non saprei, forse un virus a suo modo è un linguaggio. Ma non direi come allora, che arriva dallo spazio».