il Giornale, 4 luglio 2019
Storia di Tadashi Yanay, fondatore di Uniqlo
State comodi. Quando Tadashi Yanai osserva il mondo attraverso i suoi piccoli occhiali, non c’è altro da aggiungere. D’altronde dal quarantacinquesimo piano della Tokio Tower, dal suo ristorante preferito, il mondo si vede in modo limpido. L’Azure 45 è il quartier generale da dove muovere la sua grande armata, che si distingue per non distinguersi mai. È l’Armata No Logo. Arriverà presto anche in Italia, a Milano, il 15 settembre. Sappiatelo.
Tadashi Yanay vuol dire Uniqlo, una storia miliardaria nata in un piccolo negozio di Hiroshima diventato la catena simbolo della comodità. Una specie di romanzo nato da un errore, perché quando Yanai decise di tramutare la sua Unique Clothing Warehouse in una sigla, ad Hong Kong la registrarono tramutando la «c» in «q». Rendendola immortale. Anche se non invincibile. Un successo e 99 errori è infatti il titolo dell’autobiografia dell’uomo più ricco del Giappone, che si è messo in testa fin da giovane che un’isola non fosse abbastanza. Sognava l’America, l’aveva vista da studente. Quando frequentava economia e politica alla prestigiosa Waseda di Tokio, «quando non ero proprio uno studente modello: giocavo molto a mah-jong e pachinko, ascoltavo jazz. E immaginavo di essere là». Così ecco i viaggi in occidente e la scoperta di quel modo strano con cui i ragazzi Usa compravano negli store: sceglievano da soli, buttavano in un cestino, passavano alla cassa. Se andate oggi in un negozio Uniqlo farete la stessa cosa.
Dunque da qui nasce il successo che resisterà a 99 errori ed oltre: l’idea di un brand che vesta il mondo casual e senza dover avere i marchi da portarsi addosso, «perché le persone non devono diventare dei veicoli pubblicitari». State comodi, potete. Così Tadashi dopo un esperienza di un anno in un supermercato, torna a casa, prende in mano il negozio dei genitori e lo fa in poco tempo diventare Fast Retailing. La holding di un impero che ha Uniqlo come capitale. E gli errori? Si susseguono, ma fortificano: «Le persone prendono troppo seriamente i loro fallimenti, devi essere positivo e credere che troverai la prossima volta il successo». È filosofia. In giapponese la chiamano Kaizen, è il miglioramento continuo. Gli Anni Novanta infatti sono così: decine e decine di store aperti in Giappone, con l’unica politica di abbinare qualità a un prezzo accessibile. «È il punto di partenza di un business che vuol funzionare». E quindi se si decide di puntare sul pile, si prende esempio Patagonia che lo vende una giacca a 100 dollari e la si fa meglio. Mettendola in negozio a 19. Semplice da dire, ma perché funzioni bisogna sbagliare.
Il piano di Yanai infatti prevede l’espansione all’estero, ma ci sono alcuni particolari di cui non tiene conto. Per esempio esternalizzare la produzione in Cina fa tornare negli store indumenti cheap per cui la gente non ha voglia di spendere soldi. Eppoi al di qua del mondo, il manager suite and tie non capisce perché debba improvvisamente abbandonare la cravatta per mettersi una maglietta, seppure di bel tessuto. Insomma nel Duemila ecco gli anni del crac: 21 negozi in Inghilterra e 3 negli Stati Uniti aperti nel 2001, cinque anni dopo chiudono per mancanza di vendite. «Semplicemente non hanno funzionato» dice Tadashi aggiustandosi gli occhialini e i capelli brizzolati. Dal suo punto di osservazione il futuro è già scritto. Infatti. Oggi Uniqlo ha quasi 2000 negozi in 16 diversi mercati, Milano sarà l’entrata nel diciassettesimo. E i soldati di Yanai sono addestrati nei minimi particolari. Perché di soldati si tratta: il generale Yanai non permette diversità. Le frasi che dicono, il modo in cui ti pongono la carta di credito, la piega con cui rimettono a posto magliette e pantaloni, sono tutti studiati nel minimo dettaglio. Disciplina, innanzitutto. E comodità s’intende. Ed è per questo che il piumino 100 grammi ora lo vogliono fare tutti, così come i pullover in 50 colori, le magliette in supima cotton, le T-shirt in materiale traspirante. Nessuno però ha quella qualità, nessuno ha in azienda 16 Takumi, sarti artigiani che studiano tagli e tessuti prima che questi diventino capi d’abbigliamento che non stanno mai né larghi, né stretti. Che non sono mai né caldi, né freddi. Che sono un pezzo Uniqlo, «perché vestirsi dev’essere l’estensione del corpo, e non una gabbia dove rinchiudersi». Le cravatte? Ovviamente non ci sono. E i manager hanno cominciato a sfilarsele.
Tadashu Yanai a 70 anni ha insomma deciso di lanciare la sfida finale: un’azienda nata per sbaglio non può che diventare la numero uno. Il suo traguardo è diventare il titolo leader del listino Inditex, quello dove si solito al top si legge Zara. Ma sempre con quella filosofia zen che fa accadere tutto sottovoce, così come avviene quando lui afferma missioni che sembrano epocali: «Non vogliamo conquistare una posizione dominante copiando gli altri. Non vogliamo diventare i numeri 1 perché siamo i più grandi, ma perché siamo i migliori. Intendiamo creare abiti per il futuro, in grado di cambiare il mondo». E soprattutto capaci di arrivare all’obbiettivo finale, quello per il 2020: 50 miliardi di dollari in vendite e 10 miliardi di ricavi. L’assoluto, così come lo è il suo testimonial principale, ovvero Roger Federer, il re del tennis strappato alla Nike con un contratto da 30 milioni di dollari per dieci anni. È passato giusto il primo, mancano altri 270 milioni alla fine. E l’unico particolare è che Roger, a quasi 38 anni, non giocherà a lungo. Anche se a Tokio 2020 – alle prossime Olimpiadi – sicuramente ci sarà: il contratto lo vuole, seppure Federer smentisca e si arrabbi a sentirselo dire.
È la teoria del tutto, in salsa giapponese. Perdere 1 milione e mezzo di dollari in un giorno in Borsa perché l’estate è troppo calda (2017), donarne miliardi ai terremotati del suo Paese. Pensare che ogni giorno sia un successo ma può essere un fallimento. Adattarsi. Non ci si scompone e non si sgarra. I sentimenti non sono un opzione. Perfino il figlio di Yanai non sa ancora cosa erediterà, oltre a qualche azione: Tadashi deciderà chi sarà il capo dopo di lui solo quando ne avrà trovato uno migliore. C’è tempo: da una poltroncina al quarantacinquesimo si può guardare il futuro senza fretta. Stando comodi.