Il Sole 24 Ore, 4 luglio 2019
Sui tassi in retromarcia Berlino batte Tokyo
L’Eurozona rischia la “giapponesizzazione”? Beh, a dire il vero questo scenario – più volte profetizzato e temuto dagli economisti negli ultimi anni – può dirsi ormai agganciato. Tanto che nel mondo capovolto dei tassi negativi – dove i bond con rendimenti inferiori allo 0 valgono 13mila miliardi di dollari e sono un quinto del totale in circolazione – Berlino ha addirittura superato Tokyo. Non solo perché ieri il Bund a 10 anni ha toccato il minimo storico a quota -0,4% mentre il corrispettivo nipponico chiudeva a -0,15%. Ma anche perché per trovare tassi positivi in Germania bisogna ormai spingersi sui titoli con scadenza a 20 anni, mentre in Giappone i tassi superano lo “0” dai 15 anni in su.
La Germania è considerata il punto di riferimento dell’Eurozona (non a caso il famoso spread tra due Paesi dell’area euro si calcola proprio in rapporto al rendimento del Bund). Ma la “giapponesizzazione” dei tassi si sta diffondendo a macchia di leopardo anche in altre aree. In Francia, ad esempio, dove i tassi sono negativi fino a 10 anni, siamo ormai sugli stessi livelli del Giappone. Stesso discorso per l’Austria e la Finlandia. L’Irlanda, che un tempo veniva annoverata nell’acronimo dispregiativo dei “Pigs”, offre bond sovrani a tassi negativi fino a 9 anni. Non lontani Portogallo e Spagna che viaggiano sottozero fino alla durata di 7 anni. Quanto all’Italia, che nelle ultime settimane sta recuperando gran parte del terreno perso negli ultimi mesi a causa delle diatribe tra il governo e Bruxelles, riceve soldi dagli investitori (è questo che accade in sostanza quando si emettono bond con tassi negativi) fino a scadenze biennali. Tra i 19 Paesi che condividono l’euro al momento solo la Grecia non è ancora approdata (o scivolata?) nel mondo dei tassi sottozero pur potendo sfoggiare un rendimento molto basso sulla distanza a 10 anni (2%), inimmaginabile fino a qualche anno fa quando i tassi erano a doppia cifra.
È evidente che tutto (o quasi) dipende dal costo del denaro fissato dalla Banca centrale. E in questo momento il tasso sui depositi (che le banche pagano, se positivo, per parcheggiare la liquidità presso la Bce) è fissato a -0,4% (e potrebbe essere tagliato a -0,5% entro settembre). Mentre il tasso di riferimento (pagato dalle banche per prendere soldi a prestito dalla Bce a una settimana) è a 0. Il costo del denaro in Giappone è a -0,1%. Quindi è evidente che se l’Eurozona si è “giapponesizzata” è perché la politica monetaria adottata della Bce si è avvicinata negli ultimi anni a quella della Bank of Japan. Con il termine “giapponesizzazione” però non si intende tanto uno stato momentaneo quanto una condizione strutturale di tassi ultrabassi. Da oltre 20 anni Tokyo convive con tassi bassi/negativi e l’incapacità di generare un’inflazione di medio periodo intorno al 2%. Una strada che pare abbia intrapreso anche l’Eurozona. Negli ultimi 10 anni l’inflazione dell’area si è attestata in media all’1,2% (lontanissima dall’obiettivo “inferiore ma vicino al 2%” della Bce). E nei prossimi 10, stando agli ultimi contratti finanziari che guardano al futuro, dovrebbe attestarsi sempre intorno all’1,2%. È per questo che i mercati iniziano a scontare un nuovo taglio dei tassi (o forse due) entro fine anno e probabilmente il lancio di un nuovo quantitative easing. Il tutto considerando che la Bce non alza i tassi da ormai 8 anni e che in questo momento detiene in pancia asset finanziari (frutto delle iniezioni di liquidità degli ultimi anni per provare a stimolare l’economia) superiori ai 4mila miliardi di euro, pari al 40% del Pil dell’Eurozona. Da questo punto di vista gli Stati Uniti, con tassi di riferimento al 2,5%, un’inflazione attesa a 10 anni al 2% e asset in pancia alla Fed pari al 18% del Pil Usa, sono decisamente più al riparo, numero alla mano, dallo spettro della “giapponesizzazione”.