Corriere della Sera, 4 luglio 2019
Un ricordo del Mago Gabriel
Lunedì scorso, in un piccolo paesino della cintura torinese, è morto il Mago Gabriel, 79 anni. Il Mago Gabriel, come tanti altri incantatori, ha avuto due momenti di gloria. Il primo è coinciso con l’esplosione delle tv locali.
Eravamo intorno alla metà degli anni Ottanta, prosperava un «sommerso» televisivo non scalfito dalla vergogna: imbonitori che si azzuffavano con la lingua italiana, maghi e maghetti che promettevano miracoli via etere preoccupati solo di segnalare il numero in sovrimpressione, cantanti flagellati dal tempo e danzatrici dalla cellulite, improponibili esperti di seduzione, maliarde con vistosi buchi nelle calze a rete. Ogni canale, anche il più piccolo, anche il più modesto, aveva il suo mago o cartomante o indovino che vivacizzava le lunghe dirette: Nascia Prandi, Ansea, Mago Davide, Nicoletta Paciaroni, Madame Lucienne…
Il secondo momento di notorietà arriva nel 1993, quando la Gialappa’s Band costruisce un programma con il meglio delle trasmissioni locali: Mai dire tv.
E qui il Mago Gabriel diventa uno dei protagonisti indiscussi: non si prendeva troppo sul serio, aveva tutta l’aria di essere un cabarettista che giocava a fare il mago, sfruttando anche il suo modesto bagaglio culturale con modi di dire sgrammaticati tipo «le palpebre della dita», «pinotismo» (al posto di ipnotismo). Meravigliosa una sua telefonata a Emiliano Mondonico: quel cognome era troppo difficile per lui e lo storpiava in mille modi.In quel mondo «paragnottico» ed «eso» e «terico» (è sempre il Mago Gabriel che parla) fanno il loro debutto due personaggi che ancora oggi frequentano i salotti televisivi: Roberto Poletti e Alessandro Meluzzi. Se dobbiamo credere alla teoria dell’imprinting messa a punto da Konrad Lorenz (una sorta di compromesso tra un apprendimento innato e uno acquisito) certi atteggiamenti ora ci appaiono più comprensibili.