Corriere della Sera, 4 luglio 2019
Nel Dantedì diamo al poeta anche l’alloro
Nel canto XXV del Paradiso, ormai a conclusione dell’impresa poetica e (senza saperlo) quasi al termine della vita, Dante confessa un suo desiderio maturato da anni. Dice più o meno così: se mai il «poema sacro», la cui fatica mi ha smagrito, riuscirà a vincere la crudeltà di quelli che mi tengono fuori da Firenze («dal bell’ovile»), allora tornerò nella mia città invecchiato ma con ben altro (e altissimo) prestigio (di poeta): potrò dunque prendere la corona d’alloro sul mio fonte battesimale... Quella dell’incoronazione è, per l’Alighieri, un’immagine fissa destinata a rimanere irrealizzata. Enrico Malato, studioso ed editore della Commedia (sta ultimando il commento), nonché direttore della Necod (Nuova Edizione commentata delle Opere di Dante pubblicata dal Centro Pio Rajna) ha ripercorso la storia di quel «miraggio» in uno scritto apparso nell’ultimo numero della «Rivista di studi danteschi» . Con una proposta finale: che l’«amato alloro» venga idealmente consegnato al Sommo Poeta nel settecentesimo della morte, che ricorrerà nel 2021. E aggiunge che quella cerimonia solenne potrebbe andare a coincidere con il primo Dantedì, la giornata dantesca proposta dal «Corriere» e che ha incontrato l’adesione delle associazioni e delle accademie più importanti, compreso il Comitato delle celebrazioni presieduto da Carlo Ossola.
«Quello dell’incoronazione – dice Malato – è un tema presente già nei primi canti dell’Inferno e nel Purgatorio, ma il ripensamento dei fiorentini e il riconoscimento auspicato non ci furono». Il riconoscimento avrebbe dovuto rendere omaggio al «poema sacro» che per vent’anni aveva comportato un immane dispendio di forze fisiche oltre che intellettuali e morali. Dante morì a Ravenna nella notte tra il 13 e il 14 settembre 1321, dopo una missione a Venezia il cui viaggio di ritorno gli aveva procurato una febbre da malaria. «Il suo sogno svanì dunque con lui, e Firenze non si associò al coro del compianto universale per la sua scomparsa. Toccherà a Boccaccio, trent’anni dopo, rimediare al torto recandosi a Ravenna per consegnare dieci fiorini d’oro alla figlia di Dante a riparazione dei danni arrecati dai fiorentini».
Decaduta nel Medioevo, l’usanza classica della concessione dell’alloro ai poeti meritevoli viene ripresa nel 1315, quando il pre-umanista padovano Albertino Mussato sarà incoronato nella sua città in qualità di storiografo e drammaturgo. E pochi lustri più tardi, nel 1341, l’alloro sarebbe andato sulla testa di Petrarca, in una cerimonia al Campidoglio patrocinata dal re di Napoli Roberto d’Angiò.
Naturalmente l’auspicio di Dante non fu capriccio o semplice vanità: il Sommo Poeta era ben consapevole della sua «sommità» e sapeva di meritarsi quel riconoscimento, avendo goduto dell’assistenza di Dio in persona nel compimento del suo poema. «Magnanimo» è colui che riesce a realizzare le grandi opere che ha pensato ed è fuori discussione la magnanimità di un pellegrino che compie un viaggio oltremondano per tornare tra i vivi a raccontarlo in modo a dir poco geniale. «L’ambizione di Dante alla laurea poetica – dice Malato – non rimase però del tutto negletta: un secolo e mezzo dopo nell’iconografia lo troviamo incoronato». Benozzo Gozzoli, nella chiesa di S. Francesco a Montefalco, raffigura in tre medaglioni Petrarca a sinistra, Giotto a destra e Dante al centro incoronato di lauro: «Da allora in poi lo sarà quasi sempre». Senza dire che già in un famoso codice miniato del 1337, il Trivulziano 1080, un ricco capolettera del Paradiso raffigura il poeta nell’atto di ricevere la sua bella corona. Sono certo omaggi postumi che non possono supplire al desiderio negato dalla «crudeltà» dei concittadini.
Una «riparazione in extremis» sarebbe la consegna ideale dell’«amato alloro» proposta da Malato cogliendo l’occasione del settecentesimo. Un gesto simbolico. «Un’idea nobile che mi auguro di vedere realizzata», dice Alfredo Stussi, decano degli storici della lingua italiana. Sembra di cogliere nel riferimento di Malato alla Casa degli Italiani, l’augurio che la cerimonia si svolga al Quirinale, per poi trasferirsi a Ravenna, dove la corona potrebbe essere deposta nella cappelletta della tomba.
Il Dantedì si arricchisce dunque di contenuti, anche se poi nel calendario annuale conteranno sempre meno le solennità e saranno soprattutto le scuole, i teatri, le biblioteche, le piazze a festeggiare il nostro Poeta, e non solo nelle regioni dantesche ma nei territori più impensati, dove la Commedia viene letta e amata e dove l’Alighieri è una presenza viva e non un immobile monumento marmoreo. Resta ovviamente la questione della scelta della giornata. Il presidente del Consiglio regionale toscano e della Casa di Dante, Eugenio Giani, che ha dato il suo appoggio, ha due idee: il 26 marzo, giorno del battesimo (nel 1266, cioè l’anno dopo la nascita) oppure il 6 ottobre (Dante era presente come legato dei Malaspina alla firma della pace di Castelnuovo con il vescovo di Luni). Malato insiste con il 13 aprile: «Quel giorno terminò il viaggio nell’oltretomba che cominciò il Venerdì santo». Come ha detto il dantista Marco Santagata, non avendo molti riferimenti storici sulla vita di Dante qualunque data scelta sarà in qualche modo arbitraria. E pazienza.