la Repubblica, 4 luglio 2019
In Cile per vedere l’eclissi totale
LA SILLA (DESERTO DELL’ATACAMA, CILE) — “Il cielo del Cile è la finestra da cui il mondo guarda l’Universo”. Lo leggo in cima alla Gran Torre di Santiago del Cile, il più alto grattacielo dell’America del Sud, su una splendida foto di un osservatorio nel deserto.
Sono arrivata tre giorni fa, per un motivo preciso: l’eclissi totale di Sole. Il 2 luglio, ore 15.30, la Luna ha iniziato lentamente a coprire il disco del Sole, fino a eclissarlo completamente per due minuti. Per una di quelle incredibili coincidenze che la natura ci regala, infatti, sotto certe condizioni la dimensione apparente della Luna è leggermente maggiore di quella del Sole. Non ho mai visto un’eclissi totale, solo parziali. Le eclissi di Sole, infatti, a causa dell’ombra piccola che la Luna è in grado di proiettare, sono visibili solo in piccole porzioni del globo. In Italia, l’ultima totale è stata nel 1961. Io ho visto quelle parziali del 1999 e del 2015.
Ho viaggiato per 12 mila chilometri, 14 ore di volo, per arrivare fin qui. E non è un caso. Perché quella frase, bellissima, che ho appena letto, è vera. Il Cile è una finestra sul cosmo. Possiede uno dei cieli migliori per l’osservazione astronomica; già al livello del mare, in una notte limpida, sono riuscita a vedere la Via Lattea stagliarsi chiara sul nero del cielo. È il modo in cui vediamo la Galassia in cui si trova il Sistema Solare: un cammino lattescente composto da miriadi di stelle. Ma non basta. Il nord del Cile è occupato da uno dei deserti più secchi al mondo, l’Atacama: la combinazione di scarsissimaumidità dell’aria, praticamente totale assenza di luci artificiali e altitudine ne fanno uno dei migliori siti per l’osservazione professionale. Qui l’Europa ha costruito i suoi più grandi telescopi, tra i più potenti al mondo. Paranal, La Silla, Atacama. Nomi ignoti ai più, ma cari al cuore di un astronomo come me: parlano di deserto, cieli fitti di stelle e giganteschi occhi meccanici spalancati sull’Universo. Mi sono diretta proprio in uno di questi luoghi: La Silla, nel mezzo del deserto. Qui ha sede il primo osservatorio costruito dall’Eso (European Southern Observatory, Osservatorio Europeo del Sud). Quest’anno, fatalità, festeggia cinquant’anni. Arrivo a La Silla la mattina del 2 luglio. Non sono mai stata qui, nonostante la mia carriera di astronomo, ormai conclusa. L’osservatorio, con le sue cupole bianche, si staglia sul panorama lunare di un deserto sconfinato. L’aria è secca, il cielo limpidissimo, e la gente tanta. È venuta da tutto il mondo per partecipare all’evento organizzato dall’Eso. Visite ai telescopi, concerti, e l’attesa palpabile dell’evento. Sarà breve e irripetibile, lo sappiamo, un balletto cosmico frutto di un meccanismo perfetto in cui l’uomo s’inserisce come una rotellina minuscola, eppure fondamentale. Del resto, diceva qualcuno, l’uomo è il modo che l’Universo ha trovato per studiare se stesso.
C’è fila per la visita ai telescopi, e da parte mia un bel po’ di emozione a visitare strumenti che ho usato per la mia tesi di laurea e di dottorato, o semplicemente luoghi di cui spesso mi hanno parlato i miei colleghi. Ma tutto è solo antipasto prima del piatto forte. Inizia alle 15.30. Tutti con gliocchialini d’ordinanza per guardare in modo sicuro il Sole, assiepati tra le cupole, o sotto la grande antenna radio ormai dismessa, aspettiamo. La Luna inizia a mangiare il primo pezzettino di Sole. Intorno continua il chiacchiericcio. Suvvia, siamo uomini del XXI secolo; sì, forse abbiamo fatto quasi il giro del mondo per essere qui e ora, ma manteniamo un contegno. La luminosità cala, e così piano la temperatura. È un po’ come quando il Sole è velato, ma non c’è una nuvola per miglia e miglia. Solo deserto e il cielo d’un blu assoluto. Oppure è come al tramonto, ma sono le 16, e il Sole è alto. La luce continua a calare, il Sole è uno spicchio sempre più piccolo in cielo, e il tuo corpo lo sente: che c’è qualcosa che non va, che qualcosa non torna. Il Sole è una falce, il cielo sempre più scuro, le ombre irreali. Poi, l’ultima scintilla di luce si spegne, ed è la totalità: il chiacchiericcio si zittisce, e tutti, semplicemente, esplodono in un unico urlo di meraviglia. E io so che accomuna chi è alla sua prima eclissi, e chi ne ha viste decine. In cielo, un buco: tondo e perfetto, circondato dalla luce pallida e candida della corona, la parte più esterna del Sole. È la porta per un altro mondo, come immaginato in migliaia di miti, in decine di libri e fumetti, e sta là, immobile. Tutto intorno, un tramonto circolare, che tinge di porpora le cime dei monti desertici. E le stelle, alle 16.40 del pomeriggio: il pianeta Venere, il primo a vedersi, e poi Giove, e le stelle più luminose. È un tempo sospeso, in cui tutti torniamo uguali ai nostri antenati, che per primi videro questo spettacolo e invocarono gli dei di salvarli dal buio. Puoi sapere come funziona, puoi averlo persino studiato, come me, ma la tua reazione sarà sempre la stessa: il cuore che accelera, l’emozione che sale, la paura, persino, e il freddo che morde le ossa. Due minuti infiniti di meraviglia, tutti a bocca aperta. Finché la scintilla s’accende di nuovo, quel foro nel cielo si chiude, e piano la luce ritorna. La gente tira di nuovo fuori gli occhialini, ride, condivide le emozioni provate. Tutto torna normale, ma resta quel freddo e quell’emozione indescrivibile.
Guardo uomini da tutto il mondo intorno a me e penso che in questi tempi di confini, di chiusure, è bello che qualcuno giri il mondo per inseguire l’emozione di due minuti. E venga qui, nel deserto, che per definizione i confini li ignora, a condividere quell’emozione con altri uomini, a sentirsi piccolo con tutti gli altri, su questa navicella cosmica persa in un grande nulla, che per un istante abbiamo guardato assieme. Ci salvano il desiderio di conoscenza, la capacità di emozionarci affacciandoci da questa straordinaria finestra da cui tutti, davvero, guardiamo l’Universo.