3 luglio 2019
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Biografia di Giampiero Boniperti
Giampiero Boniperti, nato a Barengo (Novara) il 4 luglio 1928 (91 anni). Dirigente sportivo. Presidente onorario (dal 2006, insieme a Franzo Grande Stevens), ex presidente (1971-1990) ed ex amministratore delegato (1991-1994) della Juventus. Ex calciatore, di ruolo attaccante. Giocatore-bandiera della Juventus (1946-1961), con cui vinse cinque campionati italiani (1949/1950, 1951/1952, 1957/1958, 1959/1960, 1960/1061) e due Coppe Italia (1958/1959, 1959/1960); militante anche nella Nazionale italiana (1947-1960). Politico. Ex europarlamentare (1994-1999), eletto tra le file di Forza Italia. «Vincere non è importante: è l’unica cosa che conta» • «Famiglia di solidi mezzi economici» (Claudio Gorlier). «Papà Agabio, prima sindaco e poi podestà di Barengo. Mamma Camilla, maestra. Più che la guerra, mi impressionò il dopo. La Resistenza. Il paese spaccato. Partigiani, fascisti. Momenti terribili, anche dalle nostre parti» (a Roberto Beccantini). «All’oratorio di Barengo, e poi al collegio De Filippi di Arona, Boniperti capì di essere Boniperti. […] Già a tredici anni giocava in quel modo unico, testa alta e petto in fuori, e tiro formidabilissimo» (Maurizio Crosetti). «“Furono gli amici a ‘leggermi’ la Juve del Quinquennio come se fosse un romanzo d’avventure. Il fenomeno di casa, però, era Gino, mio fratello. Solo che fumava come un turco. Sarebbe diventato un fuoriclasse. Ha fatto il radiologo. Me l’ha portato via un tumore”. […] Se non avesse fatto il calciatore? “Avrei fatto l’agricoltore. Non ho mai rinnegato le mie radici contadine. […] Mi sono diplomato geometra e ho dato quattro esami di Economia e commercio. Poi, solo calcio”» (Beccantini). «S’impegnava al massimo. […] Era di struttura normotipica molto vicina alla brevilinea, che è l’ideale per il calcio. Scattava con prontezza e colpiva benissimo a volo con i due piedi. Per non avere mai fatto altro sport era un poco ipertrofico di cosce, e proprio da questo gli veniva notevole potenza nei tiri» (Gianni Brera). «Aveva capelli riccioluti e biondissimi. E il tritolo nei piedi. Assieme ai coetanei di Barengo era andato in giro a pubblicizzare il calcio nel Novarese. Lui aveva segnato 70 gol in 17 partite. Poi si fece vivo il Momo, la società del paese vicino. E, siccome nell’Italia della ricostruzione erano importanti pure le piccole storie di campanile, il Momo fece firmare il cartellino al baby bomber per battere l’Intra. Missione compiuta, appunto con 2 gol di Boniperti. Cominciò quel pomeriggio del ’46 il romanzo del biondino di Barengo. Firmò e si lasciò alle spalle i giorni spensierati della caccia con il papà e delle frequentazioni nelle risaie, quando portava i calzoni alla zuava e consumava con sguardi maliziosi le gambe delle mondine. Un amico (Voglino) lo presentò ad un altro amico (Perone), il quale ragguagliò Felice Borel, detto Farfallino» (Angelo Caroli). Fu lui, all’epoca giocatore e allenatore della Juventus, a scrutinarlo per i bianconeri. «Feci il provino in piazza d’Armi, dove si allenavano i ragazzi. Borel venne a vedermi. Poi, entrò in campo. Mi lanciava la palla. Di destro: pim; di sinistro: pim. Chiamò il dottor Egidio Perone, medico di Barengo e tifosissimo della Juventus, e gli disse: “Portamelo ancora domenica, così lo faccio giocare nelle riserve prima della partita con il Livorno”. La domenica, era il 22 maggio 1946, tornammo a Torino. Sulla Topolino del dottor Perone. L’appuntamento era allo Sporting, il tennis club, dove i giocatori mangiavano, prima di andare, a piedi, al Comunale. Vidi per la prima volta Sentimenti IV e Rava, Parola e Piola, Varglien II e Locatelli, Coscia e Depetrini, insomma conobbi la mia Juve. Poi andammo al campo: l’avversario era il Fossano e mi marcava un giocatore vero, anche se un po’ in là con gli anni. Era stato lo stopper del Torino. Vincemmo 7-0 ed io segnai sette goal. Carlìn, storico giornalista di Tuttosport, scrisse: “È nato un settimino”. La Juve, con Volpato che era il responsabile del settore giovanile, mi fece firmare il cartellino nel sottopassaggio che portava agli spogliatoi. […] Le trattative furono brevi; io avevo firmato il cartellino per il Momo ma, sentimentalmente, il mio cuore era per la squadra del mio paese, il Barengo, e desideravo che, nel passaggio alla Juventus, anche quella società avesse qualche guadagno. Andò a finire così: prezzo di acquisto 60.000 lire; 30.000 furono per il Momo e 30.000 per il Barengo, in scarpe, maglie e reti, di cui avevano bisogno Io, mi accontentai dell’onore». Secondo Angelo Caroli, invece, «Giampiero aveva 18 anni, però già fiutava gli affari come il più scafato dei mercanti. L’accordo fu raggiunto così: la Juve avrebbe dovuto versare 52.175 lire al Momo, al giovanotto ne toccavano 6.200. Il biondino puntò i piedi e fece correggere la scrittura (si può controllare nel documento): […] 7.200 a lui, 51.000 al Momo». «Nell’atleta ben fatto e coordinato, ogni mossa riesce elegante: e Gian Pier piaceva a chiunque capisse di calcio. Dopo Borel venne in panchina Renato Cesarini, che finalmente decise di lanciare Gian Pier in serie A, e ne fu così convinto Pozzo che non esitò a chiamarlo, diciottenne, in nazionale. Fu quella al Prater una disastrosa Waterloo: Pozzo viveva ormai su una nuvola. […] Lo sparuto golletto italiano (1-5!) venne firmato Boniperti» (Brera). «La prima rete in prima squadra la segnerà l’8 giugno 1947, a Marassi contro la Sampdoria, mostrando classe e fiuto del gol, che gli consentiranno di segnare a raffica anche nelle partite successive. Gianni Agnelli intanto forgia una squadra di potente bellezza intorno a quel ragazzino dal talento luminoso, ed ecco che nel campionato più lungo della storia, a ventuno squadre, Boniperti da centravanti titolare, con 27 gol in 40 partite, supera anche le stelle Mazzola e Gabetto. Il piede 38 di Boniperti è una fionda gentile, e i suoi gol sempre di pregiata fattura. Visione di gioco, tempismo, astuzia, classe, intelligenza e concretezza. E, fuori dal campo, educazione e riserbo. Segna e fa segnare, diverte, incanta. Un anno lucente, una squadra superba. Arrivano altre vittorie e altri scudetti» (Emilio Targia). «Il 21 ottobre 1953, l’olandese Lotsy lo seleziona per la gara in programma a Wembley fra l’Inghilterra e il resto d’Europa, organizzata per festeggiare il novantesimo anniversario della Football Association. Boniperti, l’unico italiano in campo, al fianco dei vari Nordahl, Vukas, Kubala e Zebec, è autore di una prestazione da favola che corona con due splendidi goal: finisce 4-4, ma il venticinquenne biondo di Barengo è unanimemente riconosciuto come il migliore in campo» (Stefano Bedeschi). «Ricordo bene quella circostanza, e la risposta del commissario tecnico inglese, Winterbottom, alla domanda su chi sarebbe servito per rafforzare la sua squadra: “Undici Boniperti”» (Gorlier). «Sono arrivati insieme Omar Sivori e John Charles. Anno di grazia 1957: con loro è cambiata la vita, della Juventus e mia. Tre scudetti in quattro anni non hanno bisogno di spiegazioni. […] John era la nostra guardia del corpo. Ricordo quando Gigi Peronace mi ha portato Charles a casa. Vedo ’sto uomo per la prima volta, un monumento. L’ho fatto alzare in piedi: “Gigi, con lui vinciamo tutto”. Ed è stato così. […] Con loro due davanti, dopo otto anni da centravanti, io sono arretrato stabilmente e felicemente a mezz’ala. Mezz’ala di regia, un ruolo che mi sono inventato. Sivori faceva la mezz’ala di punta, Charles era un magnifico centravanti ed io le mie battaglie in area di rigore le avevo già fatte». «Facilita i loro prodigi, ma non smette di segnare gol mai banali. La prima stella e tre scudetti in quattro anni, per il trio delle meraviglie che faceva impazzire le folle, e per quel capitano biondo che dirigeva, sorvegliava e proteggeva» (Targia). Poi, improvviso, il ritiro. «Sabato 10 giugno ’61, Juve-Inter 9-1. La prima partita di Sandro Mazzola, con la squadra ragazzi, schierata per protesta contro la decisione assunta dalla Caf di far ripetere la partita del 16 aprile, sospesa per invasione di campo sullo 0-0. L’ultima partita di Giampiero Boniperti. In tempi nei quali gli addii al calcio dei campioni diventano occasione di spettacolo tv, con mobilitazione di sponsor, nani e ballerine, quello del signor Juventus resta quantomeno singolare. Un perfetto contropiede. A 33 anni nemmeno compiuti, […] Boniperti finisce la partita con l’Inter e uscendo dal campo incrocia il magazziniere della Juve, Crova, e gli consegna le scarpe: “Queste sono per te: io ho finito qui. Ciao”. E se ne va, mentre Crova gli risponde: “Vai via, falabràc”. Non lo sa nessuno, a parte la moglie, Rosi, e il fratello, Gino, e non ci crede nessuno. Invece è tutto vero, anche se poi le scarpe sono tornate al mittente e finite nell’ufficio presidenziale. A crederci meno di tutti è Gianni Agnelli. Come ha raccontato lo stesso Boniperti nel bellissimo libro scritto insieme con Enrica Speroni (Una vita a testa alta), l’Avvocato lo chiama alla ripresa della preparazione, nell’estate ’61: “Vai ad allenarti, c’è da giocare la Coppa dei Campioni. È tutto pronto”. Boniperti non osa dire di no, ed è costretto a spiegarlo alla moglie: “Da domani si torna al riso in bianco e al filetto”. Ma questa volta la signora Rosi si permette di dissentire: “Fai come vuoi, ma cambi già idea?”. Il giorno dopo, quando suona la sveglia, Boniperti si gira dall’altra parte. Il bello è che da allora non ha più giocato: nemmeno le partitelle con gli amici. Chi ha disputato 444 partite ufficiali nella Juve, segnando 178 gol, chi ha vinto cinque scudetti, chi ha fatto prima il centravanti e poi mezz’ala (con Charles e Sivori di punta); chi è stato selezionato per Inghilterra-Resto d’Europa 4-4 (Londra, 21 ottobre ’53) non può divertirsi a giocare nel giardino di casa, nelle sfide che piacciono agli scapoli e agli ammogliati» (Fabio Monti). «Si era sposato e non vedeva nascere figli. Si dice abbia fatto il voto di non dare mai più un calcio alla palla, e di figli ne ebbe tre, molto belli» (Brera). «Dopo un decennio trascorso nei quadri dirigenziali, Boniperti il 13 luglio 1971 assume la presidenza della Juventus, e la squadra, dopo anni non troppo brillanti, torna a volare. Sotto la sua regia, infatti, la squadra bianconera tiranneggia l’Italia, l’Europa e il mondo: arrivano scudetti e soprattutto quelle coppe europee che in casa Juventus avevano sempre fatto soffrire. Quando la Juventus di Parola perse lo scudetto con il Torino, nel campionato 1975/76, Boniperti si presentò a Villar Perosa, per discutere dei contratti con i giocatori. Nella propria borsa, oltre ai contratti, aveva anche un ritaglio di giornale, con la formazione scesa in campo a Perugia l’ultima giornata di campionato: 16 maggio 1976, la Juventus perde per 1-0 e il Torino, pareggiando in casa contro il Cesena, può festeggiare il tricolore. Ai giocatori che, a mano a mano, entravano nella sua stanza, Boniperti diceva: “Tu c’eri a Perugia…”. Nessuno ebbe certo il coraggio di rilanciare sul reingaggio. Lui faceva l’interesse della società, ovviamente, ma stimolava i giocatori nell’orgoglio e nel portafoglio» (Bedeschi). «Dopo i cinque scudetti vinti da giocatore, […] e dopo i tre conquistati all’inizio della carriera dirigenziale, a lui si deve la scelta sorprendente di un giovane allenatore di scuola milanista, Giovanni Trapattoni: insieme formano un sodalizio che tra il ’76 e l’86 conquista 6 scudetti, Coppa dei Campioni, Coppa Uefa, Intercontinentale, Supercoppa europea e un paio di Coppe Italia. Intanto continua a dedicarsi con profitto alla sua azienda agricola» (Gorlier). «Gli Agnelli gli avevano affidato anche le tenute agricole, un capitale immenso da far fruttare. Lo chiamavo “il fattore”, non so quanto gli piacesse: volevo dire che era valvassore del Principe e che sapeva destreggiarsi nel migliore dei modi. […] Fu anche un asso nell’amministrargli i beni agricoli. Ma i giochi più belli fece in Juventus» (Brera). «Vince tutto anche dietro alla scrivania, prima di mettere a segno un altro contropiede. […] È il 5 febbraio ’90. Si dimette, e dice: “Poi vi spiegherò perché”. Ha fatto a tempo a tornare per il governo dei mille giorni (’91-’94) e per vincere una Coppa Uefa (’93). E […] quell’addio è ancora senza un perché. Un’altra giocata da Boniperti» (Monti). «L’ultimo atto è l’acquisto di un giovane che, di strada, ne farà parecchia: un certo Alessandro Del Piero, al quale è lui a imporre l’ingaggio» (Gorlier). «Acquistato dalla Juve nell’estate del 1993, Del Piero si allenò per una settimana con il procuratore Rizzato per discutere il contratto: “Se Boniperti ci propone questo, noi ribattiamo quest’altro; se invece ci offre quest’altro, noi chiediamo anche …”. Arrivati nell’ufficio, il presidente della Juve portò subito il futuro Pinturicchio nella sala delle coppe, e gli disse: “Per il contratto, non preoccuparti: la cifra, la scriviamo noi. Sarai contento. È tutto a posto, fìdati”. Del Piero firmò. Poi, uscito dalla stanza, si appoggiò desolato ad un muretto con il manager: “È una settimana che parliamo di contratto, e in cinque minuti Boniperti ci ha liquidati”» (Enrica Speroni). Eclissatosi dagli stadi ai tempi della gestione Bettega-Moggi-Giraudo, fu richiamato dalla famiglia Agnelli nel 2006, in seguito alla deflagrazione dello scandalo detto Calciopoli, per assumere, insieme a Franzo Grande Stevens, la carica di presidente onorario della società, a significarne la rifondazione a partire da uno dei suoi volti più rispettabili e vincenti. Ancora oggi, oltre a ricoprire tale carica, continua a curare l’azienda fondiaria di famiglia, «a due passi dal Parco del Valentino a Torino, dove Giampiero si presenta con puntualità elvetica ogni mattina. […] "Non manco mai. Faccio spesso attività fisica per quello che posso, cerco di mantenermi in forma, non fumo, sto attento a tavola e ogni tanto faccio arrabbiare la mia inseparabile segretaria. Sa perché? Perché arrivo al lavoro guidando l’auto…"» (Federico D’Ascoli). «Sto molto bene, le gambe non mi danno problemi, invece la memoria un poco sì. […] Invecchiare è solo una gran rottura di scatole, e io i compleanni non li conto più» • «Il gol più bello che ha realizzato? “Non so se sia davvero il più bello in assoluto, ma sono affezionato a un rigore che calciai, e trasformai, al Filadelfia, contro il Toro. Non ha idea dell’atmosfera. La gente, lì, a pochi metri. Sentivo le fiamme che uscivano dai nasi granata. Tirai una lecca sotto la traversa. Parola mi diede dell’incosciente”» (Beccantini) • «È diventata leggenda la storia dei premi che Gianni Agnelli gli dava per ogni rete segnata; gli veniva regalata una mucca, che lui andava a prendere direttamente nei poderi della famiglia Agnelli. Il fattore, a un certo punto, si lamentò, dicendo che Giampiero gli portava via le mucche più belle e, per giunta, gravide» (Bedeschi) • Sposato, tre figli. «Niente avventure, lui con quel fisico da attore del cinema: un solido matrimonio con una donna intelligente e tutt’altro che subalterna, non certo la solita ragazza di copertina, pur nel suo fascino» (Gorlier) • Numerose le ipotesi intorno all’origine del soprannome «Marisa», per lo più variamente riconducibili al suo aspetto curato e ai suoi modi distinti. Se l’ex collega Benito «Veleno» Lorenzi se ne è arrogata la paternità («Eravamo nello spogliatoio, Giampiero aveva appena vent’anni, era bellino, biondo, poco peloso, quasi efebico. “Che fisico da Marisetta”, gli dissi ridendo. Poi siamo diventati grandi amici»), lo stesso Boniperti l’ha spiegato talvolta ricordando una sua antica abitudine ritenuta vezzosa («Portavo un fazzoletto nella tasca dei pantaloncini: mi serviva per detergere il sudore»), talaltra citando la volta in cui, a Novara, prima di un’amichevole, fu omaggiato in campo da una miss Piemonte di nome Marisa («Mi porse un mazzo di fiori. Ero il capitano, ci fu lo scambio di baci e il pubblico cominciò a urlare: Marisa, Marisa. Il coro poi cambiò destinatario, e con cattiveria continuò; ogni volta che toccavo palla i tifosi mi beccavano: Marisa, Marisa»); altri ancora, come Gorlier, citano la sua correttezza in campo («Boniperti non era mite, ma il suo stile ripudiava ogni forma di gratuita brutalità. Ecco allora l’appellativo, fatto proprio soprattutto dai tifosi torinisti, di “Marisa”, che ancora lo irrita e che va inteso nel suo significato più reale, il rifiuto di venir meno, appunto, allo stile, alla misura: maschio non macho. Non saltava certo a gomiti larghi, né esplodeva mai in accessi d’ira») • «Sapeva anche risparmiarsi e picchiare. Le sue caviglie garantivano di rischi sempre più gravi: a me contadino ricordavano quei rami di gelso potati troppe volte per non dilatarsi a orrendi bugnoni» (Brera). «Allora non c’era la tv. Tutti guardavano la palla, e in area, lontano dal pallone, volavano colpi spesso proibiti. Quante botte ho preso là in mezzo. […] Quello che mi ha picchiato di più è stato Parola, maestro e capobranco ma avversario duro quando gli giocavo contro nelle riserve della Juventus. Nella prima foto ufficiale con la maglia bianconera, ho un occhio nero per una gomitata di Nuccio in allenamento: modo sbrigativo per spiegarmi che il tunnel che gli avevo fatto non gli era piaciuto. Parola mi voleva bene ed io lo adoravo. Era grandissimo: non a caso con la sua rovesciata è stato per anni sulla copertina delle figurine Panini. Se penso cosa guadagnano adesso i giocatori con il diritto d’immagine e cosa non ha mai preso Parola per tutto il tempo in cui ha pubblicizzato l’album con quel gesto tecnico straordinario, divento matto. Ma una soddisfazione e un bel ricordo ce li ho: perché io, quando non ero già più presidente della Juventus, ai dirigenti della Panini tutte queste cose le ho dette: “Quanto vi ha fatto guadagnare Parola senza avere una lira in cambio?”. E loro hanno capito. Alla famiglia Parola hanno versato cento milioni, come segno di riconoscenza. E Nuccio, che è stato malato a lungo, ne aveva bisogno. Nella storia della Juventus, Parola occupa un posto importante: giocatore eccezionale, con Valentino Mazzola è in cima alla mia classifica ogni tempo, ha vinto tre scudetti anche da allenatore. Quando è morto, ho preso la cravatta della mia divisa bianconera e gliel’ho annodata al collo. L’ho fatto io, anche se nella Juventus non avevo più un ruolo operativo. Ma il vecchio Parola alla Juventus ha portato eleganza, signorilità e gloria: non poteva andarsene nudo» • «Cattivi rapporti con Omar? Bisogna capire una cosa. Sivori era argentino. Non era né brasiliano, né John Charles. Il brasiliano, se può, ti dribbla e passa la palla, in silenzio. L’argentino ti dribbla dandoti un pugno in faccia e poi ti manda a fare in culo con un “Hijo de puta”. […] Ma che grande giocatore, Omar. Ti divertiva, in campo e fuori, era una fortuna averlo come compagno. […] Eravamo molto diversi, questo sì, mi disturbavano certi suoi atteggiamenti provocatori e glielo dicevo. Non ci siamo taciuti nulla, ma insulti mai, litigate mai. Anzi, ci siamo divertiti insieme» • «In testa ai miei rimpianti metto Maradona. Lo avevo già preso, con Giuliano e Sivori: tutto okay, un milione di dollari. "Ciao, presidente", mi diceva Diego, strafelice. Fu Grondona, […] il presidente della federazione argentina, […] a bloccarlo prima dei Mondiali ’82. […] Dopo Maradona, Riva e Gullit. Riva, se non sbaglio, lo ha poi confessato: feci male a non accettare» • «L’Heysel, la tragedia più immane. Ma la partita fu vera, i giocatori non sapevano. Fui io, che sapevo, a ridurre al minimo i giri di campo, le feste» • «Giuro: ho sempre resistito alle tentazioni, non ho mai arrangiato partite. […] Non devo rendere nessuno scudetto. Anzi: ne meritavo il doppio» • «Del Piero mi assomiglia nell’amore per la squadra, nella fedeltà, credo anche nella serietà. Anche se io ero molto più carogna di lui. Ma avevo un vantaggio: non c’era la televisione, e potevo menare come e quanto volevo. Però ne prendevo anche un sacco, devo dire» • «Avrei voluto giocare io con il pallone di oggi e non con quella bestia dei miei tempi, quel pallone con la cucitura che ti spaccava la testa e il collo del piede, il mio poi numero trentotto…». «Avrei dato la metà del mio stipendio per giocare soltanto un tempo, magari i venti minuti finali come accade oggi. Non trascurate un fatto: vinsi la classifica dei cannonieri con ventisette reti in un periodo di grandissimi come Valentino Mazzola, che finì alle mie spalle. Il calcio contemporaneo è un’altra cosa» • Parsimonioso. «Quando bisognava comprare, Gianni Agnelli mi diceva: mi fido di te, ma fai come se i soldi fossero i tuoi. E, quando mi “svegliava” anche alle quattro del pomeriggio, voleva dire che non eravamo primi in classifica» • «Il mio piede, non per dire, di soddisfazioni me ne ha date tante, anche quando l’ho usato per prendere a calci nel sedere qualcuno» • «Un supremo dilettante. Se si fosse battuto con furore, sarebbe stato il più grande calciatore del suo tempo» (Brera). «Boniperti come calciatore ha avuto la stessa grandezza di Bach» (Salvatore Accardo). «Aveva un enorme carisma, […] rappresentava in toto la Juventus, come essa era stata negli anni antichi e come continuava a essere anche con il suo esempio. Si può affermare che Boniperti capitano suggellasse passato e futuro; è nato con lui il calciatore come professionista, la stessa attività di calciatore assume contorni più precisi, una sua distinzione. Il calciatore forte e malizioso nella lotta, che non tira mai indietro il piede, e disponibile per utili consigli comportamentali, fuori, con i compagni» (Vladimiro Caminiti). «Sono stati in molti nel corso degli anni a chiedersi – e a chiedergli – se sia stato migliore come giocatore o come presidente. In realtà è una domanda oziosa, perché quel presidente è diretta emanazione del giocatore, e quel giocatore aveva in campo il piglio di chi sa gestire un gruppo come un presidente» (Targia) • «Al tempo stesso perentoriamente assertivo e astutamente reticente» (Gorlier). «Uno che parla poco è esperto, uno che parla pochissimo è espertissimo» • «Mi dà forza la fede nel Signore, che non mi abbandona mai, e la mia famiglia, che funziona un po’ come una squadra di calcio. Siamo uniti e compatti: mai una sbandata, mai un tradimento, mai una divisione, di nessun genere. Siamo affiatati, granitici: nipoti compresi. Ogni anno pretendo che ci facciamo una foto tutti insieme: è un po’ come la formazione della Juve schierata prima del fischio d’inizio, anno dopo anno» • «Il calcio è bello sempre, anche quando sembra brutto». «Bisogna conoscere il calcio per godere di cosa belle ma spesso nascoste. Bisogna comunque avere buongusto, e tanto, per apprezzare l’insieme, deformità comprese» (a Gian Paolo Ormezzano) • «Mai avuto tentazioni? “Se per tentazioni intende qualche offerta, ebbene sì, ne ho avute. Inter, Milan, Roma, il Grande Torino. Era stato Valentino Mazzola a fare il mio nome a Ferruccio Novo. Il presidente mi ricevette nel suo ufficio: commendatore, gli dissi, sono della Juve, non posso”. […] Come si diventa Boniperti? “Parlando il meno possibile. Facendo il duro. E, nei ritagli di tempo, battendo come Dio comanda qualche calcio d’angolo”. […] C’è un altro Boniperti di cui vorrebbe parlare? “C’è stato quello che andava a caccia con Fausto Coppi, incantato dai suoi silenzi. C’è stato l’amministratore delle tenute di Umbertide e Veneria di Lignana, quest’ultima vicino a Vercelli, dove girarono Riso amaro. C’è il marito, il padre di tre figli, il nonno. […] Ho cercato, sempre, di essere all’altezza”» (Beccantini). «Lei è stato il braccio destro di Gianni Agnelli per decenni. Di lei l’Avvocato diceva "Boniperti se non vince sta male". Le manca? "Molto. Ma lui è sempre accanto a me, sul divano dello studio di casa mia. A un certo punto, molti anni fa, decidemmo di comune accordo di non andare più allo stadio e di guardare la Juve insieme. Non ci siamo mai lasciati davvero, anche se lui adesso è in un posto lontano…". La Juve resta la squadra più vincente, ma anche la più antipatica. Perché? "Non sono la persona più indicata. Per me è un amore senza confini: l’ho incontrata a 18 anni e non l’ho più lasciata. Antipatica, agli altri, lo sarà sempre: lo è adesso perché non lascia nulla agli avversari, lo era quando la dirigevo io, lo sarà in futuro. L’invidia per me rappresenta una medaglia al valore. E, comunque, se mezza Italia tifa bianconero significa che ha il suo fascino…"» (D’Ascoli). «La Juventus è stata tutta la mia vita. […] Gli scudetti li ho visti tutti, ne ho vinti 14 e di una cosa sono sicuro: la Juventus non finirà mai».