Libero, 3 luglio 2019
Con il caldo più suicidi in carcere
Ogni settimana un detenuto si toglie la vita. Ed ogni mese ad ammazzarsi è un poliziotto penitenziario. Dal 2000 ad oggi i suicidi in cella sono stati 1.076, 67 nel 2018, 23 dal primo gennaio di quest’anno. E nei primi sei mesi del 2019 hanno scelto la morte 6 agenti della polizia penitenziaria, tra i 32 ed i 54 anni, l’ultimo il 24 giugno scorso a Vigevano. È incandescente più che mai il clima che si respira in questi giorni all’interno degli istituti di pena italiani. Nel carcere di Poggioreale, a Napoli, che a fronte di una capienza regolamentare di 1.635 individui ne ospita 2.314, di cui 337 stranieri, nel giro di 48 ore si sono suicidati due reclusi e un altro è perito per cause naturali. A metà giugno una violenta rivolta è scoppiata nel padiglione detentivo Salerno che è stato distrutto, a scontrarsi sono stati in totale 300 ristretti: nigeriani, da un lato, e italiani, dall’altro. Ed è probabile che queste tensioni, esplose anche a causa del sovraffollamento, abbiano reso l’esistenza dietro le sbarre ancora più insostenibile, tanto che due uomini hanno preferito farsi fuori piuttosto che permanerci. I conflitti di tipo etnico e culturale sono quotidiani, del resto la vita in una cella di pochi metri quadrati tra soggetti di diversa nazionalità con usi e costumi differenti, costretti a stare gomito a gomito notte e giorno, non è facile. Il nostro sistema penitenziario può ricevere 50.496 carcerati, ma ne accoglie 60.522, di cui 20.224 stranieri (oltre il 30% di tutta la popolazione reclusa, dati ministero della Giustizia, Dap). Ogni 100 posti disponibili nelle prigioni nostrane ci sono 115 reclusi e tra il 2016 e il 2018 la popolazione carceraria è lievitata del 7,5% (dati del rapporto Space). PRINCIPALI REATI I primi Paesi esteri per numero di detenuti presenti nelle prigioni della nostra penisola sono Marocco (3.733 presenze), Albania (2.543), Romania (2.524), Tunisia (2.043), Nigeria (1.615), Egitto (566), Senegal (504) ed Algeria (471). I principali delitti di cui questi forestieri si sono resi autori nel Bel Paese e per i quali scontano la pena sul nostro territorio sono soprattutto reati contro il patrimonio (furto, rapina, estorsione, sequestro di persona, truffa, appropriazione indebita, ricettazione, ecc.), traffico di sostanze stupefacenti e reati conto la persona (omicidio volontario, lesioni personali volontarie, violenza privata, minaccia, violenze sessuali, ecc.). Significativa pure la presenza di cittadini non italiani per crimini contro la pubblica amministrazione (violenza, resistenza, oltraggio), contro la fede pubblica (falsi in atti), contro l’amministrazione della giustizia e contro la famiglia (dati del Sappe). Più continuiamo ad accogliere clandestini sul nostro territorio più il numero dei ristretti extracomunitari aumenta rendendo sempre più drammatiche le condizioni esistenziali di coloro che stanno in gattabuia. Va da sé che in tal modo è impossibile che le istituzioni totalizzanti penitenziarie assolvano alla loro funzione fondamentale, che è quella rieducativa, volta al reinserimento sociale del reo una volta saldato il suo debito con la giustizia. Ed ecco che la galera diventa un luogo in cui ci si incattivisce, si peggiora, una scuola che addestra alla delinquenza, perché bisogna pur sopravvivere in qualche maniera in quella sorta di inferno. In estate la situazione diventa ancora più tragica. SENZA SCAMPO L’afa degli ultimi giorni non lascia scampo ai detenuti, che non possono godere dell’aria condizionata e convivono a stretto contatto, gli uni sugli altri. Il sole infierisce con crudeltà sulle minuscole finestre della cella, le sbarre diventano roventi, quello stanzino angusto, sudicio e fatiscente si trasforma in un forno, manca l’ossigeno, si rischia di impazzire. E non c’è via d’uscita. Se non la morte, unica possibilità di evasione. Sono condizioni disumane su cui dovrebbero riflettere pure i più accaniti giustizialisti, tenendo presente che l’Italia è tra gli Stati europei con il maggior numero di detenuti in attesa di giudizio (34,5% contro una media europea del 22,4%) e quindi da considerarsi non colpevoli in base al principio della presunzione di innocenza almeno fino a sentenza definitiva. Si tratta di 20 mila persone, di cui quasi 10 mila sono in attesa di primo giudizio. Il sovraffollamento genera continue sommosse, liti, aggressioni, violenze, i ristretti bruciano persino i materassi in segno di protesta, o si scagliano contro le guardie ferendole persino in modo grave. «I problemi sociali ed umani nei penitenziari permangono ed il personale di polizia penitenziaria si trova isolato nella gestione delle emergenze. Anche il suicidio di un detenuto costituisce un forte agente stressogeno sia per gli altri reclusi che per gli uomini e le donne del nostro corpo di polizia, che lavorano con zelo e abnegazione in un contesto assai complesso», dichiara Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria (Sappe), sottolineando che dal 1 gennaio del 1992 al 31 dicembre 2018 i poliziotti penitenziari hanno sventato più di 23mila tentati suicidi ed impedito che quasi 166mila atti di autolesionismo potessero avere nefaste conseguenze.