il Fatto Quotidiano, 3 luglio 2019
I dinosauri del petrolio rischiano l’estinzione
Le società petrolifere sono morti che camminano anche se i consumi mondiali di petrolio, circa 100 milioni di barili al giorno, non sono mai stati tanto alti come nel 2018. Per rispettare le indicazioni unanimi di organizzazioni internazionali e scienziati che prevedono un azzeramento delle emissioni nette di CO² entro il 2050 per scongiurare il rischio dovuto al riscaldamento globale, parte significativa delle riserve di combustibili di origine fossile dovranno restare sottoterra. Carbone, petrolio e gas naturale hanno poco più di 30 anni di vita come principali fonti energetiche del pianeta.
Alcuni, incluso Donald Trump, pensano che il futuro degli idrocarburi sia ancora radioso, e incoraggiano gli investimenti per cercare petrolio fin sotto l’Artico, o per estrarlo con il fracking o nelle sabbia bituminose. Entro il 2050 però il petrolio cesserà di essere la principale fonte energetica al mondo perché vi sarà una sempre più ostinata opposizione politica e sociale al suo utilizzo e perché si stanno aprendo praterie agli investimenti nell’elettrificazione e nelle rinnovabili. Non è detto che il mondo dopo le energie fossili sia, oltre che meno caldo, anche più armonico e giusto. È certo però che o ci sarà un mondo post-fossili, o non ci sarà più il mondo come lo abbiamo conosciuto.
Le società petrolifere sono dinosauri che, in un mondo ostile, vagano verso l’estinzione. Il petrolio resterà una materia prima per il petrolchimico perché consente di produrre mille cose utili come le plastiche. Ma Big Oil sarà molto diversa. John D. Rockefeller, fondatore di Standard Oil era all’inizio del ’900 l’emblema planetario della ricchezza illimitata. Il commercio del petrolio negli anni 70 valeva, da solo, il doppio del commercio in tutte le altre materie prime messe insieme. Ancora oggi cinque delle dieci società più ricche del mondo sono società petrolifere. Saudi Aramco, la società nazionale saudita che non figura nelle classifiche ufficiali, da sola fa più ricavi di tutta Big Tech (Google, Facebook, ecc) e JP Morgan messe insieme. Questo presente è più la fotografia di un passato radioso che l’immagine di quel che tiene in serbo l’avvenire.
Che il destino sia segnato lo sanno le stesse società petrolifere. I loro capi sono andati a confessarsi dal Papa dopo la pubblicazione nel 2015 dell’Enciclica Laudato Si’ nella quale, in sostanza, viene dichiarata una guerra morale alle fossili. Statoil, la società partecipata dal governo norvegese, ha cambiato nome in Equinor per esorcizzare due termini che non vanno di moda, specie se accostati: Stato e petrolio.
Non basteranno però né confessioni, né carte d’identità taroccate. Già in passato le società petrolifere hanno provato a reinventarsi. La sfida era quella della nazionalizzazione delle risorse petrolifere nei Paesi riuniti nel cartello Opec che le aveva private del loro monopolio sul petrolio mondiale. Questo spinse Big Oil a investire in nuove frontiere come nel Mare del Nord, o riciclarsi in nuove attività. BP nel 1986 arrivò a comprarsi il numero uno del cibo per cani, Purina Mills. Oggi la sfida è più ardua. Si tratta di abbandonare il core business petrolifero per convertirsi in imprese “energetiche” in senso ampio. Davanti a questo sentiero inevitabile, disegnato anche dalle politiche di decarbonizzazione dei grandi Stati consumatori, si frappongono però due ostacoli.
Il primo è rappresentato dalla necessità di convertire competenze, tecnologie e asset verso un business presidiato da altri concorrenti agguerriti. Il petrolio è una risorsa naturale scarsa, concentrata in poche aree del mondo molto produttive, circostanza che ancora garantisce ai produttori rendite elevatissime. Le rinnovabili, e le tecnologie per il risparmio energetico, sono potenzialmente molto più distribuite geograficamente e coinvolgono un numero potenzialmente illimitato di attori: non potranno garantire gli stessi profitti del petrolio.
Il secondo ostacolo è il rischio che a Big Oil venga applicato lo stesso trattamento di Big Tobacco che ha dovuto pagare risarcimenti per oltre 200 miliardi di dollari per i danni arrecati alla salute dei consumatori. Alle società petrolifere non basterà però scrivere sui barili “nuoce gravemente alla salute”. Oltre alle comunità locali, si stanno allenando brillanti avvocati laureati ad Harvard con la missione di salvare il Pianeta, arricchendosi al contempo.
È già provato che sia Exxon sia Shell erano a conoscenza dell’impatto delle emissioni di CO² sul riscaldamento globale fin dagli anni 80. Le società petrolifere estraggono una materia prima che viene poi raffinata e utilizzata in vario modo, dalla produzione di plastica a quella di benzina per far girare le automobili. In ultima analisi, siamo tutti un poco complici dell’industria petrolifera, anche il singolo automobilista. Ma negli Stati Uniti è più facile incolpare un gruppo di capitalisti che sbagliano, piuttosto che mettere in discussione il sistema nel quale questi operano.
Per i dinosauri del capitalismo fossile non vi è altra strada che quella di avviarsi a una difficile riconversione che preveda una produzione di idrocaburi molto più bassa, maggiore qualità delle tecniche estrattive e dei prodotti derivati, giganteschi investimenti nelle tecnologie per le rinnovabili e risparmio energetico (dunque margini di profitto molto più bassi che in passato). L’alternativa è continuare come fanno oggi, facendo campare alla grande i propri manager per i prossimi cinque-dieci anni, per poi tracollare tutti insieme, inghiottiti dalla fine del loro modello di business e dal generale discredito popolare.