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 2019  luglio 02 Martedì calendario

Sulla libertà e la censura

In Corea del Nord non c’è una parola per indicare la libertà. Libertà fa parte di una serie di parole che sono state eliminate dal vocabolario nordcoreano. Senza la parola libertà, il concetto stesso di libertà non può esistere realmente. E senza il concetto di libertà, di scelta, di alternative, è impossibile immaginare una qualunque vita diversa da quella che si sta vivendo. Per il popolo nordcoreano vita significa denutrizione, inferiorità delle donne, esecuzione per chiunque guardi un film straniero o telefoni all’estero.
Senza il linguaggio per pensare un qualunque altro modo di vivere, e tanto meno parlarne, la tua vita è l’unica possibile. Privare le persone del linguaggio è una tra le forme più semplici ed efficaci di lavaggio del cervello. Privare le persone del linguaggio significa privarle della speranza. Se ci mancano le parole per descrivere una vita migliore in un mondo migliore, l’idea stessa della speranza è inconcepibile. Viviamo in un ineluttabile, inalterabile adesso. Il popolo nordcoreano non è soltanto oppresso da un dittatore, è oppresso da un linguaggio da cui sono state eliminate tutte le parole che gli permetterebbero di sapere che esistono alternative.
SOTTO ATTACCO
La Corea del Nord rappresenta naturalmente un caso estremo. Io vivo negli Stati Uniti dove la libertà d’espressione è sotto attacco. So, ovviamente, che è sotto attacco anche in Italia. Il che significa che, in entrambi i nostri paesi, la speranza stessa è sotto attacco. Il che significa che è in atto un tentativo sistematico di renderci tanto dubbiosi sulla verità e sul linguaggio che esprime la verità, da perdere la nostra capacità di immaginare dei cambiamenti. Perderemo la nostra capacità di sperare, il primo passo necessario per agire e determinare un cambiamento.
Vorrei parlarvi brevemente di alcuni insidiosi cambiamenti, relativamente recenti, nel linguaggio che sentiamo e parliamo negli Stati Uniti.
Il vocabolario inglese riguardante la guerra è stato distorto in tutta una serie di modi. Un nemico ucciso in battaglia è stato neutralizzato. La tortura è stata ribattezzata interrogatorio intensificato. I prigionieri di Guantanamo sono trattenuti in stato di fermo.
Negli Stati Uniti si usa la parola war, guerra, in modo molto massiccio, dalla minaccia del nostro presidente di riprendere la guerra contro l’Iraq alla guerra commerciale con la Cina, dalle guerre della rete a quelle al terrore, alle droghe, etc.
Si direbbe che nel mio paese ci si scandalizzi per la tortura e l’assassinio, ma non si abbia alcun problema con l’idea della guerra. Si direbbe che quando si usa una parola abbastanza spesso, in un numero sufficiente di contesti diversi, essa perda la sua efficacia. Si logori.
Il che è un altro modo per rendere inoffensivo il linguaggio. Non appena diventa abituale, la parola guerra comincia a essere accettata come una realtà della vita, una cosa che capita.
Nel marzo di quest’anno, lo scrittore italiano Roberto Saviano ha detto al Guardian, «dopo aver attaccato indiscriminatamente i giornalisti, il primo atto ufficiale del sottosegretario di questo governo è stato il taglio dei fondi pubblici all’editoria. Questo significa attaccare i valori della democrazia liberale e del pluralismo».
Pare che la legge italiana sulla diffamazione, per certi aspetti diversa dalla legge americana, venga applicata con un rigore che non si vedeva da tempo. In quanto americano, non vorrei azzardarmi a fare l’esperto di legislazione italiana, ma essendo anche, in una certa misura, cittadino italiano onorario, posso immaginare sia a dir poco inquietante vedere i politici che fanno causa agli scrittori per aver espresso le loro opinioni e addirittura, in certi casi, per aver semplicemente detto la verità. Immagino sia inquietante sapere che i politici hanno più voce in capitolo degli altri cittadini riguardo a cosa sia o non sia diffamazione.
MISURE RESTRITTIVE
Anche gli americani sono preoccupati, dato che il nostro attuale presidente sarebbe felice di veder porre nuove misure restrittive agli scrittori. Come ha detto di recente Trump: «Ho intenzione di estendere la legge sulla diffamazione in modo che quando scrivono articoli deliberatamente negativi, spaventosi e falsi, possiamo far loro causa e guadagnare un sacco di soldi».
Sono sicuro di essere in buona compagnia quando dico di non amare l’idea che, in entrambi i paesi, il desiderio di arricchirsi in modo poco pulito venga camuffato con l’esigenza di difendersi da una calunnia.
Come potremmo avere delle speranze, esattamente? Speranze di cambiamento, speranze di un nuovo governo che non sostenga il razzismo e la xenofobia, che non renda più facile ai civili acquistare armi, che non trasformi una parola come buonista in un insulto?
O, se è per questo, speranze di una nuova amministrazione nel mio paese, che non sostenga il razzismo e la xenofobia, che non si opponga a qualunque genere di controllo della vendita di armi, che non intenda la parola liberale come «sciocca e futile compassione per chiunque non sia americano, e soprattutto ricco e bianco».
TEMPI BUI
Come tutti sappiamo, sono tempi bui e difficili. Qualche anno fa partecipai a un convegno di scrittori, tra cui c’era anche Norman Mailer. Il tema era, La vita e la morte del romanzo. Al convegno si discusse la questione se il romanzo sia ancora rilevante, se abbia un posto significativo nel dibattito pubblico, se sia ancora essenziale alla nostra comprensione dell’esperienza umana. Naturalmente, gli scrittori che partecipavano al convegno, me compreso, erano assolutamente dell’opinione che la risposta fosse affermativa. Sì, il romanzo è ancora importante. Sì, il romanzo ha ancora un potere che non può essere emulato dalle altre forme narrative.
I romanzi sono anche testimonianze storiche. Mailer rimase insolitamente silenzioso, per i suoi standard, durante quasi tutto il dibattito. Soltanto verso la fine alzò l’imponente testa leonina e disse, «Ah, il romanzo sarà al vostro funerale».
Possiamo preoccuparci del futuro del romanzo, lamentarci del suo declino come forma artistica, e potrà anche non esercitare l’influenza di un tempo, ma non sta sparendo.
Grazie, Norman Mailer. E riposa in pace.
Anche se la mia testa non è imponente né leonina, vorrei sfruttare questa opportunità per dire lo stesso della speranza. La speranza, in questo preciso momento, è nell’elenco di specie a rischio di estinzione. È più difficile aggrapparsi alla speranza in paesi, in un mondo, che cospira per strapparcela tramite la censura, tramite le cause giudiziarie, tramite la riconfigurazione del linguaggio stesso.
Ma non sta sparendo. La speranza è stata con noi fin dagli albori dell’umanità. È già sopravvissuta a periodi in cui pareva essere scomparsa del tutto. E tuttavia ha resistito. Mi azzardo a dire che è qui con noi proprio adesso, in questa sala.
Per concludere, permettetemi di parafrasare Norman Mailer. Vorrei dire ai politici, alle multinazionali e alle conglomerate, ai razzisti, ai misogini e agli omofobi, a chiunque voglia farci credere che la libertà, e la speranza, non sono soltanto in pericolo, ma in via d’estinzione:
La speranza sarà al vostro funerale.