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 2019  luglio 02 Martedì calendario

Intervista a Ferdinando Camon

Oltre venti libri – l’ultimo uscito Scrivere è più di vivere – una miriade di riconoscimenti e un oceano di articoli. Ferdinando Camon, 84 anni, veneto (è nato nella provincia padovana di Urbana) passa la vita con la penna in mano. Una punta affilata, e come si dice, «non le manda a dire». Basta entrare nel suo sito e leggere l’opinione sui premi: «Lo Strega è un premio-monstre molto sensibile al potere dell’editore e poco al valore del libro». L’incontro con lo scrittore avviene nella sua casa, costellata di tomi, in quel di Padova. È gentile, deciso, in gran forma. Si annuncia un colloquio battagliero e serrato. Lo spaccato di una vita. 
Ferdinando Camon, si considera un tipo polemico?
«No. Sono essenzialmente timido, vulnerabile, malinconico e infelice».
Perché infelice?
«La vita è ingiusta. Lo è stata con mio padre, mia madre e i miei fratelli. E anche con me, dallo Stato non ho avuto altro che soprusi. Insomma la vita è piena di iniquità».
Che cosa oggi la tormenta di più?
«Non ho ancora capito se Dio è natura oppure persona. È natura dice Einstein. Che di anno in anno, con le sue teorie, raccoglie sempre nuove conferme».
Faccia un esempio...
«Tre anni fa circa è stata resa pubblica la rilevazione delle onde gravitazionali che mi sono registrato sul iPhone e ogni tanto ascolto. Queste onde sono un ammonimento di come è cominciato il tutto e come finirà il tutto. Per il grande fisico questo è il Dio-natura».
Questa rappresentazione le sta bene?
«A me starebbe bene, ma mi tormentano alcune domande: questo Dio-natura premia il bene? Punisce il male? Risposta, no. Solo un Dio-persona sarebbe giusto. Questo mi logora».
Come è arrivato a queste convinzioni?
«Quando è scoppiata la guerra ero un bambino. Mi ricordo scene di barbarica violenza, impiccagioni, bastonate, incendi. Un impiccato fu lasciato lì due giorni e due notti. Passò una contadina e gli chiese che ora fosse, poi si accorse che era staccato da terra. E ne ebbe, riportano documenti, un’impressione tremante».
Atroce.
«Ordini di un comandante tedesco. Ho raccontato queste cose lasciando il cognome vero di quell’ufficiale, che era Lembcke. Tradotto in Germania, il libro fu letto da magistrati tedeschi, i quali a distanza di anni hanno citato quell’uomo in processo. Lui è morto d’infarto la notte prima della prima udienza».
La sua penna fu come una spada.
«Come un fucile, che colpisce al cuore (l’infarto). Lui era crudele. Per interrogare i prigionieri li appendeva a testa in giù, e li scottava con una sigaretta».
Lei ha scritto tante storie, spesso molto diverse fra loro.
«Amo molto scrivere. Per scrivere bisogna essere nevrotici. Ci sono nevrosi lunghe, con le quali scrivi libri, e nevrosi brevi, per le quali scrivi articoli».
I suoi esordi?
«Era il 1963, scrivevo con una Olivetti Lettera 22. Riguardo gli articoli le procedure di lavorazione e uscita erano completamente diversi. Il buon rapporto col giornale è quello che consente la pubblicazione fulminea. In questo senso internet oggi è l’ideale, come lo è il giornale quotidiano».
A proposito di quotidiani, lei ha lavorato per l’Unità e l’Avvenire. Non è complicato passare da una visione del mondo al suo opposto? 
«Non trovo grande diversità nel messaggio. Il comunismo è un cristianesimo terreno e il cristianesimo è un comunismo spirituale».
Perché si è messo a scrivere?
«Perché sono il secondo di quattro fratelli. In famiglia non mi spettava mai la parola. Stavo zitto e pensavo. Avevo una reazione meditata. Questo porta alla scrittura, che è una reazione alla realtà tardiva ed è solida e duratura».
A proposito della sua famiglia, del suo ambiente...
«La campagna, la civiltà contadina dove ho vissuto credeva che il mondo di qua è in collegamento col mondo di là. I morti possono tornare, gli angeli e i demoni arrivano, Dio e il diavolo sono in contatto con te».
Il bisogno di credere?
«Questo bisogno di ultramondo nasceva dal fatto che il tuo mondo non ti bastava. Nel tuo mondo non eri sicuro e protetto, avevi bisogno di altre forze che intervenissero per te. Non piove, subito processione; piove troppo, un’altra processione. E così via».
I valori?
«Rispetto a quelli della campagna, oggi abbiamo perso umanità. C’era più solidarietà. Ma il confronto tra civiltà contadina e industriale avviene soprattutto sul piano economico. La civiltà industriale aveva più soldi e ha finito per schiacciare quella contadina».
Nei suoi libri racconta la campagna...
«Sì, ma non sono stato capito. Quando ho pubblicato Il quinto Stato i miei volevano vendere i campi per trasferirsi dove non fossero conosciuti. Si vergognavano di vivere come il loro figlio aveva raccontato».
Brutto colpo?
«Il mondo contadino, il mondo operaio e quello sotto-borghese, aveva l’aspirazione a diventare borghese. Bei vestiti, un’utilitaria e fare le ferie. L’essere descritti al di sotto di un certo decoro li umiliava».
In casa?
«Mio padre, Oriondo, era una gran buona persona in senso dostoevskiano, con forte senso del bene e del male. In guerra non voleva sparare. Si interrogava su tutto. Mia madre si chiamava Elena, era taciturna e grande lavoratrice, sempre a messa e basta. Morì giovane d’infarto».
Come era abitare con loro?
«In casa non c’era pavimento. Camminavamo a piedi nudi sulla nuda terra. Si stava con gli animali, le anatre beccavano i muri di fango, facevano dei buchi ed entravano e uscivano».
C’era povertà ma ha studiato...
«Ho fatto tutte le scuole. Mi hanno sempre comprato libri nuovi. In qualche modo ero la longa manus della stirpe che si protendeva verso l’acculturamento urbano».
Quindi distrazioni poche?
«C’era una ragazza che mi piaceva molto e che abitava lungo il fiume, Raffaella. Io facevo il giro del paese col carretto del venditore di alimentari. Un giorno restai deluso perché si presentò tutta sporca del verderame che aveva appena dato alle viti».
Non proprio un playboy.
«Ero carino ma timido, non capivo le ragazze. Una mia ex allieva mi ha detto un anno fa professore non si accorgeva che in classe eravamo innamorate tutte di lei? (ride divertito, ndr)».
Magari tra uomo e donna lei è per cose più serie?
«Sono per i matrimoni a scadenza, della durata al massimo di dieci anni. Considero senza scadenza l’amicizia».
L’ha sempre pensata così?
«Da giovane ero rivoluzionario, bisognava porsi domande a monte di tutto. Vedevo la storia come un perenne ricominciamento. Ora credo che tutto sia un lento mutare dell’esistente. Cambi qualcosa ma non puoi ricominciare».
Il suo pensiero è nel suo nuovo libro?
«Scrivere è più di vivere è un libro che contiene insegnamenti sulla vita che io ho ricevuto vivendo e che intendo trasmettere».
Può dire altro?
«Sono insegnamenti che riguardano la vita, la morte, la famiglia, il nazismo, il comunismo, il cristianesimo. Tutti i più diversi campi dell’esistenza».
Argomenti che fanno discutere?
«Un capitoletto sulla mafia accademica (universitaria, ndr). Una storia pazzesca che ho vissuto personalmente. Che mi ha lasciato un trauma di portata enorme».
Che dura ancora oggi?
«Sì, e recentemente per indignazione ho rifiutato anche un invito del capo dello Stato Sergio Mattarella ad andare a un ricevimento». 
Reazione dura... Altre vicende?
«Nel libro racconto pure la mafia delle caparre per le vacanze. In questo caso ho scoperto che quando dovrebbe esserci non sempre lo Stato c’è, anzi».
Gliene sono successe però...
«Anche che 11 pagine del mio libro Occidente siano state trovate in un covo terroristico dell’estrema destra; pagine che durante i raduni venivano discusse. C’erano delle indagini, ho saputo per caso e ho avuto paura».
Le storie e le fonti di ispirazione non le mancano.
«Vengo da un mondo, quello contadino. Sono andato in un altro mondo, quello urbano. Qui tutto è meraviglioso, è diverso. Eccitante e sorprendente, tutto è ispirativo dunque».
Poi, dopo avere «prodotto»?
«Dopo, la scrittura va anche espiata, perché è un lavoro che non affatica il corpo. Il lavoro vero era quello che faceva mio padre».
Cioè?
«Trasportava pesi, trasportava sacchi, guidava l’aratro, si sfiniva sulla terra».
Quindi...
«Quindi per espiare, al termine di una giornata di scrittura in cui non mi ero affaticato, non avevo fatto nulla, per punire il corpo mettevo anelli di piombo intorno alle caviglie e con quelli marciavo per la città».
Lo fa ancora?
«No, ho dovuto smettere; il dottore mi ha detto che quei pesi mi rallentavano troppo e agli attraversamenti stradali rischiavo di essere investito».
Voltiamo pagina: moglie e buoi dei paesi tuoi?
«La mia più che altro è una moglie della mia Facoltà, di Lettere, a Padova, un immenso gineceo. Un serbatoio dove pescano la moglie tutti gli studenti universitari che vanno sempre lì a spiare le ragazze».
I figli?
«Il primo Alessandro è andato Los Angeles, dove è diventato sceneggiatore e produttore cinematografico. L’altro, Alberto, ha studiato Legge, ora è ordinario di Procedura penale a Bologna».
Il ménage matrimoniale...
«Con mia moglie Gabriella (Imperatori, giornalista e scrittrice, ndr), rispetto alle nostre attività c’è un rapporto di indipendenza».
Entrambi letterari, chissà quanti incontri...
«Ho conosciuto tutti i grandi scrittori italiani del ’900. Ungaretti, Quasimodo, Montale, Sanguineti per dirne alcuni, li ho intervistati. Il libro Il mestiere di poeta, che contiene le conversazioni, lo ristamperemo adesso».
Altri ancora?
«Gli scrittori che preferisco, per esempio Bassani, Volponi, Calvino, Levi e Pasolini. Con loro c’era un’amicizia, una frequentazione».
Di Pasolini che ricordi ha?
«Un personaggio a cui sono rimasto molto legato, avevo capito la sua vulnerabilità, le sue sofferenze. È stato il prefatore del mio primo libro Il quinto Stato su sua richiesta. Fece la prefazione alle mie prime poesie sull’Almanacco dello Specchio di Mondadori, e dedicò un saggio critico, compreso nei suoi Scritti corsari, al mio primo libro di critica».
Amici e amici stretti...
«Mi ricordo di Moravia e Pratolini, con cui ho visto delle partite in tv. Di Zanzotto, tipo spigoloso e selvatico, quando mangiava da me prendeva l’insalata e la metteva nella minestra in brodo e rotolava il tutto. Tra i miei amici c’era anche Lucio Dalla».
Quando non «vede gente», e non scrive, cosa le piace fare?
«Andare al cinema, leggere i giornali anche on line quando sono in fattura; sono un fanatico di Dagospia. Mi piace mangiare bene, so fare dei risotti. Quando vado a Los Angeles da mio figlio lui avvisa gli amici italiani, i quali piombano a casa sua alla sera. Sanno che se faccio da mangiare io si mangia bene».
Una questione finale che le sta a cuore...
«In fin dei conti, valeva o no la pena di nascere?, mi chiedo. Credo che tutte le risposte diventano positive se abbandoniamo il Dio-natura di Einstein e crediamo nel Dio-persona. Allora tutto acquista un senso. Tutto diventa più motivato, lieto».
La lezione della vita.
«Che bisogna sempre cercare, sempre studiare, sempre leggere. Se passi un giorno senza leggere, in quel giorno sei morto».