il Giornale, 2 luglio 2019
La tribù Hikikomori
Hanno tra i 15 e i 25 anni. Non studiano. Non lavorano. Non hanno amici. E se anche ne è rimasto qualcuno, la frequentazione è solo virtuale. Mai un’uscita, una pizza, un cinema, perché loro non escono di casa. Mai. Stanno svegli di notte quando il tempo rallenta, il mondo si ferma e il non far niente sembra meno colpevole. Di giorno dormono, per non dover assistere alla vita (degli altri) che riprende.
«Hikikomori». Si chiamano così. Ragazzi. Maschi soprattutto, benestanti, intelligenti, affatto pigri che scelgono il ritiro sociale. Isolati. Via da tutto e da tutti. Una scelta sofferta e di sofferenza. Eppure d’un tratto l’unica possibile. Hikikomori. Una parola giapponese che letteralmente significa «stare in disparte». Ma ormai di giapponese ha solo il nome e l’origine. Lì tra gli anni ’70 e ’80 all’improvviso si sono accorti di una generazione che stava scomparendo, chiusa tra le mura di casa.
L’ultimo caso si è verificato domenica scorsa a Torino, dove un ragazzino si è gettato dal balcone perché la madre gli aveva levato il pc, su cui viveva.
Oggi sono 613mila le persone di oltre 40 anni che non sono più riuscite a riprendere una qualche vita sociale. E ce ne sono altre 541mila sotto i 40, da più di sei mesi senza contatti con il mondo esterno. Sono i dati del governo che è arrivato a contarli, a cercare soluzioni per un fenomeno che non ha origine da alcuna patologia ma casomai ne sviluppa altre. In Italia non ci sono numeri certi. Centomila, secondo l’associazione Hikikomori Italia, nata come blog di un giovane psicologo nel 2015 e diventata punto di riferimento per migliaia di ragazzi, genitori (oltre duemila in tutta Italia), medici e, psicologi attorno a un problema ancora troppo sotterraneo. Spesso confuso con la dipendenza da internet. E allora cominciamo proprio da qui. Che cosa non è un hikikomori.
LA GRANDE FATICA
«Non è riconosciuta ancora neppure come una malattia. È una sindrome culturale giapponese», spiega Marco Crepaldi presidente dell’associazione. Non è fobia sociale. Non è depressione. Soprattutto non è dipendenza da internet. Spesso, ma non sempre, l’hikikomori abusa del computer ma perché è l’unico strumento che ha per restare in contatto con il mondo esterno. Colma un vuoto. «Tolto il videogioco, tolto il computer, il vuoto rimane – spiega -. Non possono essere definiti eremiti perché non sono asceti, non rinunciano ai benefit della vita, al cibo, alla tecnologia». Se vogliamo tracciare una definizione è «colui che fatica a relazionarsi con gli altri ad adattarsi al sistema sociale e tende ad allontanarsi, fino al punto di sviluppare una repulsione verso l’ambiente».
Fatica. Ecco la parola che ricorre. In pratica, mollano. Schiacciati da una qualche massiccia pressione, germogliata tra la scuola e la famiglia. Ansia del successo. Realizzazione sociale. Paura del giudizio, di non corrispondere alle aspettative degli altri, non riuscire a mantenere quel livello di performance che continua ad alzare sempre più in alto l’asticella. E sempre prima. Nell’adolescenza e giù giù, 13, 12 anni dentro quell’eta delle medie dove la crescita (sempre più anticipata) deve fare i conti con troppe variabili. Chi non è in grado di reggere, chi è più fragile, chi per un qualsiasi motivo, incidente o accidente della vita si trova in una situazione di debolezza, fa fatica a reggere il confronto. E la paura di essere «visto» fallire diventa insostenibile. Più del fallimento stesso.
Gli studi indicano che è un «male» delle società più avanzate «fondate sul potere dell’immagine, dove per essere accettati bisogna essere brillanti, simpatici, belli – continua Crepaldi -. Anche i social giocano un ruolo importante». Tutti sanno tutto. Cosa fa il compagno di classe, se si è laureato o fidanzato. Se è in vacanza, se si sta divertendo, se è andato in discoteca, con chi... Una vita di felicità illusoria che ognuno propina a suon di like. Certo non è «solo» questo. Come non è «solo» altro. È tutto, tutto insieme. Che lavora piano piano scavando la terra intorno. Piccoli solchi sempre più profondi. E quando si chiude il cerchio non resta più via d’uscita.
I TRE GRADI DELL’HIKIKOMORI
All’inizio è solo un malessere diffuso, dove la solitudine si affaccia come un sollievo. Poi col tempo le relazioni virtuali prendono il sopravvento, il ritmo sonno-veglia si inverte e la scuola si allontana. «Sono ragazzi molto maturi, non hanno deficit cognitivi ma partono da tesi molto razionali, dal loro punto di vista. Tipo: “Ma cosa esco a fare?”, “gli altri sono tutti superficiali”, “la società fa schifo”, qualcosa che tutti un po’ pensiamo ma che vengono portati all’estremo», spiega Crepaldi. Nel libro Hikikomori. I giovani che non escono di casa, ha individuato tre stadi. E ha «contato» chi c’è dentro in Italia.
Il 38,5% dei genitori ha dichiarato che il figlio si trova nella prima fase («frequenta la scuola o il lavoro e ha ancora dei contatti sociali diretti, oltre a quelli virtuali»), il 55,2% nella seconda fase («ha abbandonato completamente la scuola o il lavoro e tutti i contatti sociali diretti, ad accezione dei parenti, preferendo i contatti virtuali») e il 6,3% alla terza fase («non intrattiene nessun tipo di relazione sociale, nemmeno con i parenti o tramite internet).
I momenti più delicati sono quelli di passaggio. Dopo le medie «i primi due anni della scuola superiore sono i più critici. Ma anche tra il liceo e l’università». Esiste un preciso punto dove non bisognerebbe mai arrivare: l’abbandono della scuola. Dopo, è tutto più difficile. La relazione con i compagni, gli insegnanti, gli episodi di bullismo talvolta subdoli e invisibili agli occhi dei docenti, contribuiscono a creare il solco. I dati (Istat) fotografano più del 50% degli studenti vittima di offese o violenze a scuola, il 9% con cadenza settimanale.
ALLARME ITALIA
Tra il 2015 e il 2017 il 4,3% ha interrotto gli studi, circa 112.240 ragazzi (maschi per lo più). Un dato che ci posiziona ai primi posti in Europa. «Se un ragazzo ha difficoltà ad andare a scuola, a integrarsi va aiutato. Subito», allerta. Così l’associazione è stata coinvolta dal Miur per scrivere le linee guida nazionali riguardo al fenomeno Hikikomori e potere indicare alle scuole come gestire i casi.
Già cosa fare? «Sono ragazzi meritevoli di programmi personalizzati. Invece molte scuole non li attivano perché non c’è una diagnosi riconosciuta – insiste lo psicologo -. Poi aiutarli a finire l’anno scolastico, magari con lezioni al pomeriggio o via internet. O cambiare scuola. La bocciatura è la definitiva condanna all’isolamento». Ri-stabilire la relazione che non metta al primo posto l’andare bene o male a scuola, allentare le pressioni sui risultati. Spegnere «il computer non serve a niente perché non è l’elemento che li tiene in casa. Quello che li barrica è la perdita di motivazione nei confronti di una vita sociale con le sue tappe scolastiche e lavorative che non riescono o non vogliono sostenere».
Come Davide (il nome è di fantasia). Studente modello di medicina che rifiuta ottimi voti per non abbassare la media del 30. Resta indietro. La sensazione del «tempo perso» diventa stress, poi vergogna verso i coetanei. Evita occasioni che lo «obbligherebbero a rendere conto delle sue difficoltà» e in quel meccanismo di «tutto o niente» scatta l’isolamento.
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SERENA COPPETTI
«Ero in seconda liceo. Quel giorno sono tornato da scuola. Sono andato in camera. Ho chiuso la porta a chiave. Ho messo il letto davanti perché nessuno potesse entrare e sono rimasto chiuso dentro per tre giorni consecutivi. Uscivo la mattina quando mia madre andava in ufficio e mia sorella a scuola. Ho fatto due anni così, di reclusione. Non parlavo quasi con nessuno, passavo tutto il giorno al pc. Stavo male, malissimo. Pensavo di essere l’unico al mondo ad avere questo problema. E mi divoravo dalla vergogna». Marco Brotta oggi ha quasi 24 anni. Da quel giorno - il suo «punto di rottura» - di tempo ne è passato parecchio, ma la sua vita non è più cambiata. È un hikikomori. Abbiamo fatto una chiacchierata di quasi due ore. Usa spesso parole come «recluso» parlando di sé. Prima di rispondere, butta fuori l’aria come a volersi scrollare di dosso o di dentro, un grosso peso. La superficialità non gli appartiene. Non ha chiuso la porta della sua vita per disinteresse. Né per svogliatezza. Cercava qualcuno che sentisse il suo grido che non usciva. Oggi parla. Non dice a che costo ma dice il perché: dare voce a chi ha ancora la possibilità di tenere aperta la porta della sua vita. Pensi che ne uscirai? «Non credo. Quello che spero è di diventare un po’ meno recluso e un po’ più aperto, grazie all’aiuto finalmente del medico giusto. Soprattutto vorrei che la mia esperienza non andasse persa perché non si diventa un hikikomori dall’oggi al domani. Ci sono segnali che si possono cogliere, specie nei ragazzi in crescita...». Come ti definisci? «Oggi sono introverso, ma non timido, anche se sembra un contrasto. Poi coraggioso, troppo. Ho cercato di portare fardelli giganteschi fino a crollare. Per un ragazzino non è una buona idea stringere i denti e andare avanti, questa cosa ti segna. Almeno per me, per il carattere che avevo io è andata così. Non siamo tutti uguali. Magari chi è più forte, più estroverso riesce a reggere alla pressione. Ma chi non è così non può trasformarsi. E dovrebbe essere capito e aiutato...». Dov’è l’inizio di tutto? «La mia problematica più grande era lo stato di salute, una grave forma di dermatite. Avevo chiazze rosse, a volte piaghe. Ero sempre diverso. Ma all’inizio, alle elementari non ero un ragazzo chiuso. Tutt’altro. Chi mi conosce da prima sa che ero estroverso, non avevo problemi caratteriali, stavo in gruppo e non ho mai avuto difficoltà a inserirmi. Poi le cose sono cambiate». Quali cose? «I miei genitori che litigavano, mio padre se n’è andato di casa, la pressione che sentivo. Volevano che diventassi qualcosa, io cercavo di fare capire che stavo male, che la dermatite non mi rendeva un ragazzo come gli altri. Ma ero trattato come se il problema non ci fosse. Era come se fossero omertosi nei confronti di quello che avevo. Le cose poi sono peggiorate alle medie». Cosa è successo? «Ero finito in una classe senza il mio gruppo. Non mi trovavo. C’era quella sorta di bullismo che non si può definire davvero bullismo. Sempre in competizione, mi scusi... al chi ce l’ha più lungo. Già lì avevo cominciato a dire basta. I prof poi, se non eri il figlio di una persona che a loro importava, ti trattavano come un soldato. Dovevi andare lì, portare i compiti e se non li avevi fatti, ti umiliavano davanti a tutti. Ci sono andati giù pesante. La scuola, il loro atteggiamento su di me ha pesato moltissimo». In che senso? «La scuola deve cambiare radicalmente. Non dico che sia tutta pessima. Guardo a quello che è successo a me e ad altri ragazzi come me. I prof non si sono mai interessati. Per carità, non credo che debbano fare i genitori, ma se fai il prof dovresti fare crescere l’alunno non solo da un punto di vista della conoscenza ma anche a livello umano. Magari è stata anche colpa mia ma...» Ma? «... ma è strano che non abbia mai incontrato nessuno davvero interessato. Ho cominciato a non andare più a scuola perché stavo male. Però hanno saputo solo umiliarmi davanti a tutta la classe. L’assenza viene associata all’essere uno scarto della società, un fannullone, alla pigrizia. Eppure non eravamo in tanti a saltare la scuola. Lì se qualcuno mi avesse aiutato nel modo giusto le cose forse sarebbero andate diversamente. Forse avrei finito la scuola, avrei trovato un lavoro. Non si può non essere un hikikomori da soli...». Invece? «Invece la scuola non solo non ha fatto un passo per venirmi incontro ma anzi ha fatto il primo passo per allontanarmi di più. È come un regime. Se funzioni, bene. Se non sei estroverso, se fai fatica a relazionarti e quindi magari anche i compiti devi fare tutto da solo diventa pesante». E con i tuoi compagni? «Con i ragazzi sembrava di essere colleghi di lavoro, ci si sentiva solo per i compiti, per le verifiche ma non c’era più alcuna vicinanza o amicizia. Giorno dopo giorno ho deciso che non avrei più fatto niente. Sbagliavo i compiti apposta, non studiavo. Neppure le materie che mi piacevano». Come... «Fisica, che mi interessava. Però il prof mi trattava male perché... non so perché. Lasciavo i compiti in bianco, apposta. Stavo chiudendo a poco a poco con tutto. Alla fine dell’anno il prof fece una gara tra le classi. Era sicuro che avrebbe vinto il secchione, invece fui io a vincere. Non dimenticherò mai i suoi occhi, era incredulo. In seconda liceo sono stato ricoverato per la dermatite. Mi hanno bocciato per le assenze. Lì mi sono ritirato». Come passi la tua giornata adesso? «Mi alzo verso le 13, bevo un caffè e mi metto davanti al pc. Da un paio di anni faccio l’allenatore di un gioco on line, una specie di sport elettronico. Verso le 18 mangio qualcosa, alleno fino verso le 23. Poi guardo qualche film, youtube, parlo con qualcuno all’estero che ha il fuso orario compatibile. Vado avanti così finché non sono stanco, possono essere le 4, le 5 ma anche le 7 o le 8. È una vita monotona». Sei coraggioso, lo hai detto anche tu. Puoi provare a cambiarla... «Quando fai un’attività che implica una relazione sociale il cervello preme a ricordarti che sei un hikikomori, che non sei bravo a relazionarti, che puoi fingere di essere bravo con le altre persone. Ma non è così». Prova a fare un esempio. «Se mia madre mi manda a comprare tre panini dal panettiere mi viene l’ansia, un peso sul petto che non va via. E quando anche sono riuscito ad andare ed esco con i tre panini ho l’ansia di quello che il panettiere possa avere pensato di male su di me. Oggi però ho capito che non c’è nulla da vergognarsi per quello che mi è successo. Sto male all’idea che ci possano essere 100mila ragazzi che vivono un’esperienza simile alla mia. Da soli. Vorrei che il mio messaggio raggiungesse loro o i loro genitori, sorelle, fratelli, amici. Vorrei cambiare anche di poco il loro punto di vista. Questa per me è una vittoria».
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Il più piccolo aveva appena 8 anni, quarta elementare. Il più grande quasi maggiorenne. Sono arrivati all’ambulatorio di Terapia del dolore della clinica pediatrica De Marchi del Policlinico di Milano come arrivano tanti altri ragazzi. Con uno strano male alla pancia e alla testa. Un dolore sordo e continuo che preoccupa i genitori. Solo che per sei ragazzi quel dolore nascondeva qualcosa di ben diverso. Come passi la tua giornata? quanto dormi? a scuola come va? Il quadro è stato subito chiaro. «Quei ragazzi erano Hikikomori», racconta Cristiano Gandini responsabile dell’Ambulatorio di medicina integrata del dolore pediatrico, l’unico presente nell’area milanese. Nato per accogliere pazienti cronici e gravemente disabili, nel tempo è diventato punto di riferimento anche per chi presenta sintomi di disagio giovanile e tra questi, adesso anche la tendenza all’isolamento sociale. L’ambulatorio è formato da un’équipe multidisciplinare composta da medici, psicologi, fisioterapisti, umanisti, esperti del linguaggio e del web. E anche dai cani usati per la pet therapy. Al loro fianco lavora la Fondazione presieduta da Francesco Landola che proprio pochi giorni fa ha dato vita a un evento GiocaMi per parlare di Hikokomori e fare capire quanto sia importante comunicare. «Con la Fondazione stiamo facendo un lavoro nelle scuole perché il fenomeno del bullismo porta all’isolamento», spiega Gandini. Il team della De Marchi ha diagnosticato e preso in cura i sei ragazzi, uno è ancora in terapia. Non ci sono ricette, né «medicine» risolutrici. Non sono psicologi. Viaggiano al contrario. «Ripartiamo dal corpo. Come impara un bambino a stare al mondo? Con il suo corpo, poi crescendo lo diamo per scontato e pensiamo che ci serva solo a portare in giro il cervello. Il loro problema è la relazione? Bisogna ripartire da lì. La prima vera relazione è con se stessi», spiega Gandini. Come? Ad esempio hanno insegnato a mamme e papà a fare i massaggi. «Rimettiamo in connessione figli e genitori senza le parole, perché il fisico è estremamente sincero. Oggi le persone si toccano troppo poco. Quello che cerco di fare è reinterpretare la carezza attraverso il massaggio. Quando in famiglia c’è una fragilità come questa, bisogna tornare indietro. Si sono perse le capacità sociali? Bisogna ripartire, come quando era piccolo». Quindi anche con i cani e il loro affetto disinteressato. E ricominciare a fare i primi passi fuori casa.
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