La Stampa, 2 luglio 2019
Gli errori degli obesi
Una malattia, molto complicata e che ovunque nel mondo si cerca di contrastare: è l’obesità.
Finché non verrà riconosciuta e trattata come tale, non risolveremo la pandemia. E additare le persone in forte sovrappeso come pigre e senza autocontrollo non fa che peggiorare le cose. Parola di Fatima Cody Stanford, specialista in medicina dell’obesità al Massachusetts General Hospital di Boston e all’Università di Harvard. La incontriamo in Italia, dove ha tenuto una lezione agli Istituti Maugeri grazie al progetto di terza missione «Pavia-Boston» che prevede uno scambio continuo tra l’ateneo cittadino e università come Harvard e il Mit.
Il sovrappeso affligge un italiano su tre, l’obesità uno su 10 e la sua incidenza è triplicata nel mondo in appena 40 anni. Sono molte le malattie associate ai chili in eccesso, tra cui vari tipi di cancro, malattie cardiovascolari e metaboliche. L’antropologia evolutiva insegna che il nostro organismo deve muoversi e ci ammaliamo se non lo facciamo abbastanza. Ma questa è solo una parte della storia: «Mangiare meno e fare attività fisica sono misure necessarie, ma non sempre sufficienti», incalza Stanford. Bisogna capire perché.
Viviamo in un ambiente «obesogeno»: dormiamo sempre meno e la privazione di sonno, così come anche lo stresso cronico, favorisce l’accumulo di grasso. Prendiamo molti farmaci che come effetto collaterale provocano un aumento ponderale. Poi c’è il microbiota, che influenza molte vie metaboliche e, quindi, il nostro peso, ma anche alcune condizioni ormonali fisiologiche (si pensi alla menopausa) e la propensione individuale dettata da fattori genetici.
«Ai miei pazienti spiego sempre questa complessità in gioco - ci spiega la dottoressa -. Bisogna agire globalmente e i pazienti devono essere seguiti da psicologo, nutrizionista, fisiologo dell’esercizio, medico dell’obesità e chirurgo».
Lo stile di vita è il primo passo, anche se per anni siamo stati ossessionati, sbagliando, dal conteggio delle calorie, senza guardare la qualità. Un importante studio appena condotto su 20 persone, per un mese «rinchiuse» a Bethesda, nei laboratori degli Istituti nazionali di sanità statunitensi, gli «Nih», mostra che il cibo industriale, ultra elaborato e ad alta densità calorica, spinge a un maggiore consumo. Dopodiché, bisogna considerare la situazione di ciascun individuo: «Il trattamento è già personalizzato. La strada verso la medicina di precisione sta per essere imboccata anche nell’obesità: la genomica potrà quindi aiutare a capire se un intervento chirurgico o un trattamento farmacologico potrà funzionare o meno e a spiegare perché alcune persone rispondono a un farmaco antiobesità con una perdita ponderale del 5-10% e altri del 40%». Nel frattempo la ricercatrice suggerisce di individuare dei valori di indice di massa corporea per ciascuna sottopopolazione di persone sulla base di criteri come il genere e l’etnia.
Non si tratta di una questione estetica o di accettazione del proprio corpo, portata avanti dai movimenti di «Body positivity». «Il grasso in eccesso non è un tratto fisico come il colore degli occhi e non si può parlare di obesità rimuovendo la patologia», interviene Hellas Cena, ricercatrice dell’Università di Pavia e responsabile dell’ambulatorio di scienze della nutrizione della Fondazione Maugeri. «Quando un uomo e una donna con severa obesità hanno un figlio, la loro condizione si ripercuote sul nascituro. Per questo motivo è importante agire già prima del concepimento: l’influenza sullo sviluppo neurocognitivo è tale che l’obesità impatta il futuro dell’umanità».
La tendenza diffusa è quella di colpevolizzare l’individuo con obesità e deriva dalla percezione che non stia facendo abbastanza per dimagrire. «D’altra parte sono in molti ad adottare un comportamento ottimale per tornare in forma e, tuttavia, non ci riescono - osserva Stanford -. Bisogna quindi capire il perché e aiutarli con tutti i mezzi a nostra disposizione, ricorrendo, se necessario, ai farmaci e alla chirurgia per riportare l’organismo sulla buona strada». Insomma, la responsabilità non è solo individuale, ma «esiste una responsabilità collettiva, a livello di prevenzione e di trattamento: le azioni di contrasto andrebbero orchestrate - conclude Stanford - «su più livelli contemporaneamente. Concentrarsi su singole misure non porta a nulla».