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 2019  luglio 02 Martedì calendario

Intervista a Glenn Lowry, direttore del MoMa

Dal 1995 Glenn Lowry è il direttore del Museum of Modern Art di New York, meglio conosciuto come MoMA. Da allora il mondo dei musei è cambiato radicalmente. Da luogo di riflessione il museo è diventato uno spazio d’intrattenimento. Il numero dei visitatori è aumentato drammaticamente e oggi in una delle sale dove è mostrata la collezione permanente del MoMA la sensazione che si prova è simile a quella di un turista in piazza San Marco a Venezia. Altri musei come il Guggenheim e il Louvre hanno intrapreso una politica di espansione o meglio di colonizzazione, che va da Bilbao ad Abu Dhabi.

Il MoMA, invece, ha preferito espandersi senza spostarsi. Lowry è stato il protagonista di due mutazioni architettoniche, l’ultima delle quali sarà inaugurata il prossimo autunno. Lo abbiamo incontrato per farci raccontare che cosa deve fare un museo per rispondere alle esigenze della società contemporanea.
Anche i musei devono reagire a fenomeni come il #Metoo o alla necessità di rileggere la storia dell’arte da punti di vista culturalmente diversi. Come reagisce un’istituzione come il MoMA così ancorata alla cultura occidentale?
«Siamo diventati – mi auguro – un’istituzione più globale e più sensibile. Questo sarà più evidente nel modo in cui presenteremo la collezione permanente. Vogliamo che la nostra visione dell’arte sia percepita non come statica, ma in continua espansione. Il museo è un progetto in divenire: cambia così come cambiano i contenuti della storia e i modi di lavorare ed esprimersi degli artisti».
Per quanto tempo la squadra dei curatori del MoMA ha lavorato alla presentazione della collezione che aprirà il 21 ottobre?
«Per tre anni, ma in realtà la riflessione è iniziata molto tempo prima».
Quante opere della collezione sarete in grado di mostrare con i nuovi spazi?
«Nell’ultimo decennio abbiamo mostrato circa 1500 opere. Con i nuovi spazi arriveremo a 2400, più o meno. Quello che migliorerà sarà la rapidità della rotazione delle opere».
È mai stato tentato dalla sindrome di Starbucks dalla quale sono affetti altri musei: quella di aprire altre succursali per il mondo?
«No. Per me è importante sottolineare quanto la nostra identità sia legata a New York».
Oggi un visitatore che va al MoMA si trova in mezzo a una folla che rende difficile non solo apprezzare, ma persino riuscire a vedere un’opera d’arte. Come si riesce a coniugare il successo di pubblico e a salvaguardare la qualità dell’esperienza davanti a un’opera?
«Mi auguro che le nuove gallerie consentano esperienze più confortevoli. L’entrata molto più grande permetterà una migliore circolazione. Ci saranno poi le mattine durante le quali i visitatori soci del museo potranno visitarlo in tutta tranquillità. Ma, tornando alla questione del museo sempre pieno, le vorrei chiedere: preferisce entrare in un ristorante vuoto o in uno affollato? In quello affollato, credo. Se un ristorante è vuoto significa che il cibo non è granché».
Certo, ma quando sono al ristorante non vorrei essere seduto a un tavolo da quattro occupato da venti persone…
«Ok, ma alla fine quello che conta è la qualità del cibo. E, se quello che ha nel piatto è eccezionale, vorrà dire che si è trattato di un’esperienza per cui ne è valsa la pena, anche se era un po’ affollata. Quello che il MoMA mette nel piatto è sempre di altissima qualità».
Alla Biennale di Venezia per me è diventato chiaro che oggi è molto complicato mettere fianco a fianco le nuove tecnologie e i vecchi media come la scultura e la pittura. Il nuovo allestimento affronterà questo problema?
«Non sono d’accordo. Nel corso degli anni abbiamo imparato come inserire video e film nelle gallerie dove ci sono sculture e dipinti».
Un’altra forma d’arte complicata da mostrare è la performance. "The Artist is Present" di Marina Abramovic, che nel 2010 ebbe un enorme successo, per me non era una performance, ma una scultura vivente.
«Siamo impegnati a mostrare la performance come una delle forme d’arte essenziali di oggi.
Gli architetti della nuova ala Diller e Scofidio hanno progettato spazi specifici dedicati alla performance. Ma ci saranno anche momenti all’interno della collezione permanente dedicati a questa forma artistica. Il pubblico avrà ben chiaro cosa succede grazie ad una definizione grafica dello spazio».
La necessità di essere sempre politicamente corretti sta diventando una sfida molto difficile e minaccia a volte l’onestà del giudizio su un’opera d’arte.
«Viviamo in tempi in cui siamo testimoni di una serie di aggressioni grandi e piccole di vario tipo: razziste, discriminatorie, sessuali... Le opere d’arte che non considerano questi temi rischiano di non essere in sincronia con questo tempo. Alcuni artisti sono disposti a correre questo rischio, altri no. Non credo però che sia la correttezza politica il problema. Per me conta la volontà di affrontare questi temi in modo aperto e trasparente, magari pure in conflitto con il proprio personale punto di vista».