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 2019  luglio 02 Martedì calendario

L’italiano dietro al palco di Woodstock

«Io, a tu per tu con Joan Baez, davanti a qualcosa da bere, nell’alba di Woodstock, dove 500 mila persone sono ancora scosse dalla sua We shall overcome , cantata accompagnandosi con la chitarra, come davanti a un falò. Lei, così fiera e dolce, che rimprovera noi italiani di protestare troppo poco, e io che le chiedo di darci una mano a incominciare, pubblicando i suoi album per la Ricordi, dove all’epoca lavoravo come direttore generale». 
Ci vuole poco a capire come il milanese Lucio Salvini, 82 anni, discografico in pensione, appartenga a quella rara percentuale di umanità che nel 1969, in meno di un mese, prima seguì sul teleschermo la passeggiata di Neil Armstrong sulla luna, e poi assistette di persona, dal 15 al 18 agosto, al più famoso festival rock della storia: quattro giorni di musica ininterrottamente suonata a Woodstock, località dello Stato di New York. «A Woodstock – racconta Salvini, accogliendoci nel suo appartamento colmo di memorie – ho avuto la prova concreta che il sogno può irrompere non solo sul suolo lunare, ma anche nella vita di tutti i giorni, cambiando per sempre la nostra percezione della realtà». 
«Cinquant’anni dopo – continua – io per primo mi chiedo se sia possibile comunicare a chi vive nel 2019 lo straordinario misticismo condiviso dai 500 mila che si calcola abbiano assistito al festival. Lo dico perché su quel prato fuori New York eravamo tutti convinti di trovarci solo all’inizio di una rivoluzione destinata a cambiare le regole della convivenza umana, portando pace e libertà a dosi illimitate». Le attuali cronache di un pianeta sull’orlo del collasso climatico, e tuttora dilaniato da guerre e diseguaglianze, sembrano avvalorare la tesi di un abbaglio di massa tipico degli anni 60, ma Salvini preferisce glissare. «Non ho mai saputo se ci fossero altri italiani sparsi in mezzo al pubblico – rivela invece —, ma di certo nel backstage io ero probabilmente l’unico. Ci finii su invito dei due fratelli Ertegün, i proprietari dell’etichetta Atlantic, i cui album erano pubblicati in Italia dalla Ricordi». 
È un film già il viaggio dei tre da New York a Woodstock: prima in auto, fino al posto di blocco dove scoprono che si può proseguire solo a piedi per i restanti venti chilometri, e poi in elicottero, atterrando nella piazzola di fortuna tracciata unendo i piedi di quasi trecento volontari stesi per terra, in modo da formare una specie di cerchio. «Tutto in quel festival era dominato dall’imprevisto, dall’inimmaginabile – precisa il Salvini che nei primi anni 60 lanciava verso il successo cantautori come Gino Paoli ed Enzo Jannacci —. Così fu per il pubblico, che risultò almeno dieci volte più del previsto, ma anche per gli artisti, che si moltiplicavano come il pane e i pesci». Facile che, dopo tutto questo tempo, volti, microfoni, riflettori e applausi di un concerto durato una sessantina di ore filate trasformino il racconto in una sorta di videoclip dove intrecciare in un unico montaggio Jerry Garcia dei Grateful Dead sfiorato da un corto circuito, gli Who quasi ricattati dagli organizzatori perché si decidano a suonare, il folk di Crosby Stills e Nash incattivito dalla chitarra rock di Neil Young, scorci di deserti messicani su cui plana la chitarra di Carlos Santana. 
Parole che tendono a scomparire quando la memoria si fa icona nell’inno americano rivisitato dalla chitarra di Jimi Hendrix («Quando attaccò, mi vennero le lacrime»), e nel volto angelicamente ebbro di un giovane Joe Cocker che incendia di soul la beatlesiana With a little help from my friend s. Cinquant’anni dopo è quanto basta per muovere Lucio Salvini verso il progetto di uno spettacolo di rievocazione su quel grande raduno da condividere con il critico musicale Enzo Gentile e Omar Pedrini, ex chitarrista dei Timoria. Forse il minimo che ci si possa aspettare da uno che all’alba di 50 anni fa alzava il calice con Joan Baez, l’«usignolo» di Woodstock.