Corriere della Sera, 2 luglio 2019
Il Dantedì
«Poca favilla gran fiamma seconda». Non si può cominciare se non usando parole sue, visto che ce ne ha date davvero tante. Ci ha permesso di «avere una lingua ed essere avuti da lei» (questa volta sono parole di un poeta dei nostri giorni, Mario Luzi). E ci ha trasmesso l’ardore della parola, come esito di quel delirante fermento che si svolge nell’ abisso del nostro essere (e questa volta è Ungaretti). La lingua e i poeti hanno moltissimo da dirci, sempre.
Ma ripartiamo dalla scintilla, scoccata due mesi fa, a cui è seguita la fiammata. È bastato che il coraggioso Paolo Di Stefano ci pungolasse, dandoci la sveglia per tempo prima del 2021, e che la Fondazione Corriere della Sera aprisse le porte per un incontro dei responsabili, ed ecco un coro di adesioni al Dantedì, la giornata mondiale per Dante. Biografi e critici discuteranno sulla data, perché sia significativa e adatta (tra l’altro, ai due emisferi), mentre sembra piacere a tutti il nome. Che però, giustamente, ha bisogno di commento e si presta a varie considerazioni.
A qualcuno suonerà, a tutta prima, come una mascheratura di un’espressione anglicizzante con day. Non è così. Dantedì è nato (in una mia conversazione telefonica con Di Stefano) pensando ai nostri giorni della settimana – lunedì, martedì e quel che segue – intitolati a una divinità, o quasi. Nessuno obietterà sulla loro forma, perché esistono nel nostro volgare fin dal Duecento. Ovviamente, sono nomi nati sulle forme latine lunae dies, martis dies, ecc. Era forse vietato trasferire queste coniazioni in sintassi latina al nostro volgare? Non lo era allora e non lo è ora, a maggior ragione perché da un paio di secoli abbiamo bisogno di coniare migliaia di parole di ambito tecnico e scientifico secondo lo schema sintattico determinante+determinato: quello che troviamo in autostrada («strada riservata alle automobili»), ferrovia, ecc. Questo modulo non viene sentito come del tutto estraneo alla nostra lingua, perché dall’epoca medievale, partendo da parole già latine, si era affermato con parole d’uso come nottetempo (in scrittori fiorentini del Duecento), fruttivendolo (appena latinizzato in fructivindulus in documenti meridionali del XII secolo), agricultura (così in Dante) e altre ancora.
Fecondità
Lunedì, martedì ecc. sono parole italiane vive e popolari che possono far nascere voci sorelle
Si tratta di uno schema che risale alle origini indoeuropee e che da lì è disceso nel greco, nel latino, nel germanico. Nel passaggio dal latino alle lingue romanze questa costruzione è stata quasi del tutto abbandonata nella lingua parlata, ma sappiamo bene che certi tagli non sono mai netti. La «grammatica storica» (disciplina che ogni docente d’italiano o di qualsiasi lingua dovrebbe conoscere) ci spiega che tutte le lingue non sono sistemi monolitici, ma stratificati e flessibili, perché guidati da correnti varie, che da una parte spingono all’uniformità e rigidità e dall’altra rimettono continuamente in gioco paradigmi e regolarità.
Insomma, lunedì, martedì ecc. sono parole italiane vive e popolari, che usiamo tuttodì e ogni dì e che possono far nascere altre parole sorelle. Siamo sempre più avvolti da influenze di altre lingue e soprattutto di una, l’inglese, che ce ne combina di tutti i colori (galoppa il tipo verrò settimana prossima, che ricalca next week, senza articolo). Per difenderci dobbiamo gareggiare in flessibilità e abituare anche la nostra lingua a certe espressioni brevi, inconfondibili, in cui le componenti e i significati si compattano. O verremo scavalcati ogni volta dal concorrente estero. Quando dovremo parlare distesamente, diremo «la giornata mondiale di Dante» (o «per Dante»), che altri forse tradurranno nelle loro lingue; ma noi dobbiamo lanciare una parola vivace e veloce, tutta italiana e che resti chiaramente tale dappertutto. E ditemi se per indicare il giorno, la luce, ve n’è qualcuna fonosimbolicamente più bella del nostro, ormai solo nostro, dì, usatissimo da Dante; e accoppiabile a lingua di sì.