la Repubblica, 2 luglio 2019
Biografia di Emma Reyes
Questa è una storia vera. Davvero è esistita una bambina segregata dalla nascita ai diciotto anni. Una bambina analfabeta, mai andata a scuola. Sul serio è esistita la bambina che alla domanda se avesse un padre e una madre, rispondeva: cosa vuol dire?
Esattamente lei, quella bambina, diventa la più grande pittrice colombiana, di fama mondiale. Il suo nome è Emma Reyes, nata a Bogotà nel 1919 e arrivata a Parigi negli anni Cinquanta, «dopo mille peripezie», come racconta in un’intervista del 1976.
Emma sbarca infatti in Europa dopo anni trascorsi a «vivere e difendermi», e a viaggiare senza meta per l’America Latina, con l’unico obiettivo di fuggire dalla Colombia e raggiungere la Francia «per studiare e dipingere quadri, di quelli che si appendono alle pareti».
A Parigi, grazie a una borsa di studio, riesce ad avviare la sua carriera di pittrice, e si avvicina all’élite culturale, frequentando alcuni dei maggiori intellettuali e artisti dell’epoca: Alberto Moravia, Jean-Paul Sartre, Pier Paolo Pasolini, Enrico Prampolini, Elsa Morante. Viaggia negli Stati Uniti, in Italia, in Messico e in Israele, per poi stabilirsi a Bordeaux. Espone le sue opere in gallerie internazionali e diventa madrina degli artisti colombiani in Francia, dove muore a ottantaquattro anni, nel 2003.
Sembra impossibile riportare questa vita alle origini, a un’infanzia di ristrettezze e abbandono, eppure.
Il libro di Emma è il memoir epistolare di questa donna straordinaria, una storia senza tempo, diventata ben presto un bestseller in Colombia e tradotta in tutto il mondo.
In ventitré lettere, Emma racconta la sua infanzia all’amico Germán Arciniegas: da una stanza senza finestre di Bogotà, a una casa coloniale, passando per la bottega del cioccolato di Guateque, arrivando in un convento di clausura.
Il principio di tutto è dunque la stanza di Bogotà, dove Emma abita con la sorella Helena, la Signora María – donna severa dai lunghi capelli scuri —, e un bambino piccolissimo, Eduardo, detto Pidocchio.
Tenete bene a mente: Bambino e Signora. Isolateli dalla stanza, dal tempo.
Emma non sa chi siano i genitori, né perché si trovi a vivere con la Signora María, che non è sua madre. Non sa di preciso quanti anni abbia – meno di cinque —, né quanti ne abbiano il Bambino, la Signora, e la sorella.
Eppure a Bogotà, fra timore e mistero, incertezza e solitudine – tutte quelle volte in cui lei ed Helena vengono chiuse a chiave nella stanza – c’è una quasi famiglia che Emma vorrebbe tenere insieme, e invece si disgrega: prima il bambino, dato via. Poi loro, le bambine, abbandonate in una stazione, e portate in convento da un prete.
Dalla stanza di Bogotà al convento in cui si svolge la seconda parte del libro, la reclusione continua. Luoghi oscuri, serrati. Quante porte chiuse troveremo in questa storia:
Sentimmo di nuovo il rumore delle chiavi e delle catene; quando si aprì la porta entrò un raggio di sole nel salone, sul pavimento si vedeva l’ombra delle due suore allontanarsi. Dietro di loro si chiuse la porta che ci separò dal mondo per quasi quindici anni.
L’ultima sarà quella del convento.
Sebbene il racconto di Emma avvenga a distanza di sessant’anni, ha la precisione del presente, quasi che nel dettaglio, e solo nel dettaglio, sia rimasto incagliato il dolore, successivamente elaborato in resoconto. Non c’è mai risentimento, piuttosto accettazione, a tratti meraviglia, come l’autrice stessa afferma: «A volte mi sembra di aver avuto un’infanzia tristissima, altre privilegiata». A fare un grafico dei ricordi di Emma si noterebbero le ricorrenze. La memoria procede per associazione: il Bambino, la Signora.
C’è Eduardo, il primo bambino di cui Emma ricorderà gli occhi grandi pieni di lacrime che molto dopo ricompaiono – gli stessi occhi! – nel secondo bambino, apparso all’improvviso tra le braccia della Signora, senza che prima sia registrata l’informazione di una gravidanza.
Il Bambino torna in ogni bambino del romanzo, e negli animali: chi è il cagnolino lanciato nel cortile della casa di Guateque, piccolo e bianco, con gli occhi aperti; chi è se non Eduardo, i suoi occhi, Eduardo che di nuovo se ne va, muore?
Come il Bambino, torna la Signora, ovvero la madre – buona cattiva —, nelle figure femminili adulte con cui la piccola protagonista avrà a che fare, come Betzabé, la domestica di Guateque, o le suore del convento.
Dalle suore lei e la sorella piangono o dormono. Il mondo fuori è un’ombra intravista dal buco della serratura
Questa reincarnazione simbolica dei personaggi altro non è che la raffigurazione del desiderio di Emma: un desiderio di famiglia. Una famiglia in cui bambino e madre non muoiono mai.
Emma desidera una famiglia senza morte almeno quanto un’infanzia di gioco: dal fango – letteralmente dal fango – spuntano i giocattoli:
Scavavamo con le mani nella spazzatura alla ricerca di quelli che chiamavamo tesori: barattoli di latta con cui fare della musica, scarpe vecchie, pezzi di fildiferro, di gomma, bastoni, vestiti vecchi; tutto ci sembrava interessante, era la nostra stanza dei giochi.
Qui Emma ricorda la discarica di Bogotà dove andava a svuotare il vaso da notte. Il divertimento, la felicità, è costruire un pupazzo di fango con i bambini del quartiere. Più grande, sempre più grande – i bambini desiderano, sognano —, ci vuole altro fango, altro fango ancora. Si chiama Generale Rebollo, il loro pupazzo grandissimo. Ed è l’unico del romanzo a cui sia concesso crescere, e addirittura morire: verrà seppellito a pezzi, ridotto in palline di fango che serviranno a giocare alla guerra.
E giocattoli sono anche gli animali, le galline. Giocattoli sono i neonati. Un universo di giocattoli da amare, da stringere al petto. Il maiale, per esempio: «Pare che lo baciassi sulla bocca e mi addormentassi con lui tra le braccia», ricorda Emma.
In assenza di gioco, tutto è gioco. L’incendio di Guateque che devasta il paese durante la corrida per la visita del Governatore, e che nell’immaginario di Emma rimane un gioco: giochiamo all’incendio? Per fortuna che arriva Betzabé a togliere i fiammiferi.
In assenza di gioco, tutto è gioco: l’incendio, la preghiera.
La prima cosa che la suora ci insegnò fu giocare alle croci, che lei chiamava farsi il segno della croce. Ci insegnò che ogni dito ha un nome, ma solo quelli delle mani, quelli dei piedi, come il Bambino, non hanno nome; per giocare al segno della croce dovevamo chiudere tutta la mano e lasciare alzato solo il dito che si chiama Pollice.
Seguendo le peripezie della protagonista da Bogotà al convento di Santa Maria Ausiliatrice, Il libro di Emma narra di come un’infanzia soffocata trovi comunque la strada per essere infanzia, acquisirne le sembianze.
Il tempo è scandito dal sonno e dal pianto (provate a contare le volte che nel racconto un bambino scoppia a piangere, o si addormenta sfinito).
Piangere e dormire, in particolare dormire, sono le azioni principali che gradualmente muteranno di proporzione: più piangere che dormire.
Piangere e dormire, come potente rappresentazione dello stato a cui Emma ed Helena sono costrette: la loro è una condizione neonatale, sono ridotte a neonato che non deve crescere. Siamo nella fase dell’indistinto, dei bisogni primari, è perciò nella dissolvenza, nello sguardo di questi neonati tardivi che avviene la storia. Sono luci e ombre a comporre gli oggetti, gli esseri viventi. Le altre bambine del convento all’inizio funzionano come universo lontano, una gigantesca ombra, e altrettanto fanno i loro giochi, il girotondo che si trasforma in trappola, cerchio che si chiude attorno a Emma per strapparle le mutande, le uniche che possiede, sporche.
E il mondo fuori? La cosa intravista dal buco della serratura, è luce oppure ombra? Ombra nelle tovaglie, lenzuola, interi corredi commissionati da signore, clienti peccatrici per le quali bisogna pregare poiché grazie a loro, al ritmo di dieci ore di ricamo quotidiane, le piccole possono salvare l’anima. Lavorare e salvarsi l’anima: questi gli obiettivi della giornata, della vita dentro il convento.
Intanto fuori c’è solo altra ombra: ombra nei racconti delle suore, e di chiunque provenga da lì, come la signorina Carmelita che, chiusasi in convento dopo un mancato matrimonio, è una sorta di enorme Miss Havisham, e se la Miss Havisham di Grandi speranze alleva Estella per vendicarsi degli uomini che l’hanno umiliata (in particolare dell’uomo che l’ha abbandonata sull’altare trasformandosi in ogni uomo), la signorina Carmelita trasmette invece alle bambine la sua idea di mondo: un luogo ostile in cui un uomo voleva sposarla solo se grassa, per poi cambiare idea appena lei è ingrassata a dismisura. Un uomo che è tutti gli uomini – anche qui – e la vita oltre il convento come un inferno da evitare.
L’universo dietro la porta si delinea così attraverso le parole dei fuoriusciti: via via più minaccioso, meno desiderato. S’ingigantisce, terrificante: è la scena primaria di Freud, ciò che accade nella camera dei genitori, il bosco da attraversare dei fratelli Grimm. Ma quella del Libro di Emma è una favola senza ritorno a casa. L’avventura è alla partenza, nel luogo che dovrebbe essere riparo, famiglia o surrogato di famiglia. È una storia di formazione che non prevede crescita, se non oltre il romanzo, quando Emma fugge dal convento. Qui la protagonista è Cappuccetto rosso prima di andare dalla nonna. Sono Hänsel e Gretel nel pieno della carestia che origliano i discorsi della matrigna – quante porte anche nelle favole, sempre chiuse – scoprendo di non essere desiderati e che presto saranno abbandonati (come Emma e Helena).
E, come sempre, sono i discorsi origliati, le parole degli adulti che vanno a plasmare la coscienza dei bambini, che si tratti di Hänsel e Gretel, o di Emma ed Helena:
Quell’insistere sempre sullo stesso argomento aveva finito per convincerci che eravamo gli esseri più fortunati e felici in assoluto. Per questo non abbiamo mai osato protestare, né pretendere giustizia. Le nostre vite non avevano un futuro e la nostra unica ambizione era quella di passare direttamente dal convento al Cielo senza passare per il mondo. In Cielo ci aspettavano, a braccia aperte e intonando canti celesti, i santi, gli angeli, gli arcangeli e i cherubini, che ci avrebbero condotti tra le nuvole verso l’eternità nel regno di Dio e della Vergine Maria.
Da una stanza senza finestre di Bogotà, a una casa coloniale a una bottega di cioccolato. Fino a un convento di clausura
Così il mondo fuori diventa una minaccia e, nonostante la paura, si trasforma in desiderio struggente. Ed ecco Emma – adulta o bambina, le età si confondono, di fatto è la stessa bambina di Bogotà, eccola uscire, «impaurita come se stessi precipitando in un buco e, quando chiusi dietro di me la porta grossa, grossa, respirai un’aria che non aveva l’odore del convento ed ebbi l’impressione che il vento freddo fosse uscito da dietro la porta per spaventarmi». Ecco la stanza dei genitori, il bosco, la possibilità di diventare grande, e solo allora scoprire di esserlo già, rendersi conto di avere diciotto anni. Fare un passo, e prendere la forma di adulto, d’un tratto, con la missione di attraversare il bosco, malgrado la paura, insieme alla paura.