la Repubblica, 2 luglio 2019
Analisi delle calciatrici americane
Megan, una ribelle con tante cause. Per una semifinale Usa-Inghilterra molto calda. E anche molto politica. Con un avversario che vive alla Casa Bianca. Il Mondiale di Megan è una condanna. «Le mie settimane sono tutte uguali: segno due gol e mando a quel paese Trump». Tra la Pantera Rosa del calcio americano e il presidente Usa non c’è lo stesso taglio di capelli e di vedute. Nemmeno la tinta è uguale: Megan ha un optato per un melange di rosa-viola. Bisogna dire che Donald la sua impresa mondiale l’ha fatta: è il presidente più sgradito del pianeta ai suoi campioni sportivi. Pochissimi quelli che lo amano, pochi quelli che lo temono, tantissimi quello che non lo considerano. Non ce n’è uno che desideri essere accolto alla Casa Bianca, che per loro ora è un postaccio. Così Megan Rapinoe, 34 anni tra pochi giorni, attaccante, (l’unica ad aver segnato direttamente da calcio d’angolo), attivista civile, campionessa del mondo, continua la sua battaglia per i diritti. È stata la prima, fuori dall’Nfl, a inginocchiarsi durante l’inno seguendo la protesta di Colin Kaepernick, ora preferisce semplicemente non mettere la mano sul cuore. E se deve twittare contro Trump, lo fa, senza problemi. Lei vuole un’altra America. Proprio sola non è: tutte le star della pallacanestro, da LeBron a Curry, passando per un veterano di guerra come coach Popovich, hanno detto che la visita alla White House, quella che spetta ai vincitori, meglio di no. Megan di suo ha aggiunto che il presidente è «sessista e misogino» e che lei non ha nessun problema a essere una «walking protest». In breve: una rompiscatole. Dicevano così anche di Tommie Smith e di John Carlos, quelli che nel ’68 con un pugno di protesta sfondarono il cielo. Megan è gay, si è dichiarata pubblicamente prima dei Giochi di Londra 2012, a Rio 2016 ha conosciuto la sua attuale fidanzata Sue Bird, campionessa di basket, che ha anche la nazionalità israeliana. A chi le chiede (tutti): ma questa tua protesta non destabilizza lo spogliatoio? Lei risponde: «E perché? Ho sempre incoraggiato le mie compagne a battersi e a impegnarsi per la parità. E questa amministrazione non condivide la nostre battaglie». Voi ce li vedete i calciatori italiani a fare la stessa cosa? A schierarsi contro qualcuno del governo che non soddisfa i loro ideali? A chi insisteva che forse l’ultima doppietta era stata ispirata dalla ricorrenza dei 50 anni dai moti di Stonewall, lei invece di dire che non si mischia politica e sport ha risposto: «Forza gay. Non puoi vincere un campionato senza gay nella tua squadra, non è mai accaduto prima. Questa è scienza. Essere gay durante il mese del Pride è bello». Oddio, ha esagerato? O forse ha fatto un po’ di conti? Nella squadra Usa ci sono altre quattro giocatrici gay (Tierna Davidson, Abrianna Franch, Ashlyn Harris e Ali Kriger che si sposeranno a fine mondiale) e in più la coach Jillian Ellis che dal 2013 è la moglie di Betsy Stephenson con cui ha adottato una bimba, Lily. Nell’Inghilterra sono tre (Rachel Daly, Beth Mead, Jodie Taylor), nell’altra semifinale la Svezia quattro (Magdalena Eriksson, Nilla Fischer, Hedvig Lindahl, Caroline Seger) e l’Olanda cinque (Anouk Dekker, Vivianne Miedema, Sherida Spitse, Merel van Dongen e Daniëlle van de Donk). Affari loro, si dirà. Ma quello che conta è che finora l’impegno sociale era visto come intralcio al successo sportivo, volete mettere concentrarsi sull’avversaria e tirare anche le freccette a un presidente che vi dice di sciacquarvi la bocca e di pensare a vincere? Mission: impossible. Invece Megan sta dimostrando che pensare e giocare non provoca nessun disturbo, né danno. Coach Ellis ha detto che sta con lei, la squadra è abituata a sopportare la pressione. «Passiamo per arroganti, ma forse non vi rendete conto che noi da sempre sulle spalle portiamo la responsabilità di essere quelle che vogliono un mondo migliore». Insomma, a Megan tocca tirare e a Donald parare.