la Repubblica, 2 luglio 2019
Viaggio sul Rio Grande
MATAMOROS (MESSICO) – «La gente ci chiama “il popolo del fiume”. Perché è sotto il Puente Internacional Ignacio Zaragoza, quello della dogana a cento metri dal Consolato americano, che si ritrovano i migranti che arrivano fin qui. Al fiume compri da mangiare a poco prezzo, scambi informazioni e, se puoi permettertelo, trovi un “coyote”, un trafficante che ti aiuta ad attraversare. Molti vengono per guardare l’America, che è lì a poche bracciate. Il Rio Bravo scorre tranquillo e non ti viene in mente che la corrente è così forte da portarti via. Fissi l’altro lato e anche se hai i figli piccoli pensi: “Ce la posso fare”». Brenda Rodriguez, 38 anni, i capelli raccolti in una lunga treccia nera, si asciuga in fretta una lacrima mentre offre il seno a Mattias, 13 mesi. Si scusa: «Il bambino è grande, ma abbiamo viaggiato per mesi e non sono riuscita a svezzarlo. Prende solo il mio latte, Dio non voglia che me lo tolgano quando arriveremo di là…». Ha lasciato il Belize ad aprile col marito Carlos, il bebè al collo e Randi, 8 anni, che non si stacca dalla sua gonna: «Davanti all’officina di mio marito ci fu un omicidio e le gang pensarono che avesse visto qualcosa. Un amico ci ha avvertiti e siamo scappati così, senza avere neanche il tempo di spegnere i fornelli». Alle otto di domenica mattina ci sono almeno trenta famiglie ad affollare il tavolone di plastica apparecchiato alla buona nel cortile della Casa del Migrante. Il rifugio con 100 letti a castello gestito dal prete cattolico Francisco Gallardo insieme a sei volontari, nell’estrema periferia di Matamoros, 520mila abitanti, la città messicana cantata anche da Bruce Springsteen proprio per la scia di tragedie, dove General Motors e Ford producono componenti d’automobili: affacciata su quel Rio Bravo le cui curve sinuose tracciano un confine naturale che l’America ha recintato d’acciaio. È qui, proprio in questo cortile bianco dominato da un’enorme Madonna rinchiusa in una teca, che una settimana fa sgambettava anche Valeria Ramirez: la bimba di 23 mesi annegata domenica 23 giugno col padre Oscar mentre guadavano il fiume cercando l’America. La loro immagine ha fatto il giro del mondo, trasformandoli in simbolo di sofferenza e ingiustizia. «Volevamo attraversare anche noi» piange Brenda. «Ma la notte che c’eravamo decisi è venuto giù un temporale tremendo. E lo abbiamo preso come un segno di Dio. Glielo avevamo anche detto, ai Ramirez. Ma loro, niente, avevano fretta di ricominciare». E invece. È sempre qui che ha trovato riparo Tania, 21 anni, la moglie di Oscar e mamma di Valeria, unica sopravvissuta di quella tragedia. «Una ragazza modesta, ma di grande fede. No, non ha voluto vedere la foto dei suoi cari che pure ha commosso anche il Papa. Ha sempre e solo pregato, mentre noi l’aiutavamo con le pratiche burocratiche per il rimpatrio suo e dei corpi, avvenuto giovedì» confida Padre Francisco. «Di storie come la sua purtroppo ne ho viste tante» prosegue il parroco di Nuestra Señora de Guadalupe, 53 anni, da 15 anni responsabile di questo centro dove nel solo 2018 sono passate 26mila persone. «La storia dei Ramirez, arrivati dal Salvador inseguendo il sogno di una vita migliore e che invece alla fine del loro cammino hanno trovato l’America di Donald Trump che alza muri e gabbie per i bambini, è la stessa di tanti che sono qua». Gente come Pedro, 40 anni, che ha viaggiato dall’Honduras col figlio di 13 sui carri merci dei treni. È orbo ma, dice, non ha alternative: «le nostre braccia sono le uniche valide della famiglia. Dobbiamo sfamare dieci persone». Josè, 19 anni, arrivato dal Salvador con l’aiuto di un “coyote” pagato dalla sorella che vive a New York, vorrebbe inscriversi all’università. Ha già passato la frontiera due volte: lo hanno sempre rimandato indietro. Edgardo, 29 anni, dopo aver perso il lavoro come autista in un hotel ha invece lasciato il Guatemala con la moglie Lory e la piccola Ashley di 3 anni, unendosi ad una delle grandi carovane che dal Centro America hanno raggiunto il confine. «È un paradosso, ma è proprio la stretta di Trump al confine a spingere tanta gente a partire: pensano sia l’ultima chance», dice John Carlos Frey, il giornalista investigativo messicano di The Marshall Project, vincitore di un Emmy col documentario Invisible Mexicans e autore di Sand and Blood, sabbia e sangue, dedicato alla situazione dei migranti al confine col Messico. «Alla frontiera queste persone trovano una situazione di guerra a cui non erano preparati: soldati che gli danno la caccia come fossero criminali, elicotteri sulla teste che terrorizzano i bambini e i prezzi dei generi di prima necessità alle stelle». Di sicuro la sorpresa più grande è la lunga lista per chiedere quello status di rifugiato che può aprire legalmente i cancelli d’America: o chiuderli per sempre. E infatti davanti al Consolato degli Stati Uniti su Calle Primera, bivacca una folla infinita, appena smossa dai venditori di acqua, noccioline, mango e statue di santi. In attesa ci sono 800 persone: ma con soli tre appuntamenti disponibili al giorno, che spesso finiscono disertati perché le famiglie hanno già preso il volo, e prima di ottenere l’intervista passano mesi. «I migranti sono abbandonati a sé stessi, in balia della fame, della disperazione e della paura che il Cartello del Golfo rapisca i figli per il traffico d’organi» dice ancora il prete prendendo un foglio bianco su cui disegna i tornanti del fiume. «Oscar Ramirez ha provato a fare da sé, ignorando che il Rio Bravo è insidioso non solo per la corrente ma per le tante anse che confondono la prospettiva di chi lo guada. Il caso di Oscar non è isolato. Oggi tutti parlano della foto pubblicata da Julia Le Duc su La Jornada. Ignorando la donna con tre bambini morta tre giorni dopo e le 283 persone annegate in un anno». Il popolo del fiume oggi ha paura. Da una settimana nessuno attraversa. «Presto dimenticheranno. E qui si ricomincerà a morire».