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 2019  luglio 01 Lunedì calendario

Il delitto di Antonella Di Veroli

l mastice sigilla le ante di un armadio che nasconde il cadavere di una donna. Una donna sola, imperscrutabile, misteriosa almeno quanto lo è stata la sua morte.
Non ha pagato nessuno per l’omicidio di Antonella Di Veroli, la commercialista romana uccisa nell’aprile 1994 nel suo appartamento al civico 8 di via Domenico Oliva, signorile quartiere romano. Già, perché nella capitale i delittacci, quelli più crudeli, «affascinanti» – mi si passi il termine – e compiuti da un killer senza nome o volto, come nel caso di via Poma e del delitto dell’Olgiata, avvengono sempre in quartieri della «Roma bene».
La vita di Antonella si è fermata a 47 anni, una decina di giorni dopo aver festeggiato la Pasqua. Consulente del lavoro in gamba, seguiva i clienti dallo studio ricavato nell’appartamento della madre. Ma era tanto forte nella professione quanto fragile nella vita, al punto da aver bisogno di trovare nelle carte la speranza di un futuro migliore. Ma per lei la tredicesima carta dei Tarocchi è arrivata all’improvviso, senza che nessuno gliela avesse annunciata.
Pochi amici, due relazioni sfortunate con uomini sposati alle spalle, Antonella ha aperto la porta al suo assassino. Lo conosceva, lo ha accolto in pigiama, ma truccata. Così è stata ritrovata alle 17 del 12 aprile, nascosta dietro a un cumulo di vestiti, nell’armadio della sua camera da letto. L’assassino non aveva lasciato nulla al caso. Aveva sigillato bene le ante con il mastice per ritardare la scoperta del cadavere e trattenere l’odore del corpo in disfacimento. La vittima aveva una busta di plastica in testa e due piccoli fori di proiettile alla tempia. Le ultime notizie della quarantasettenne risalgono a due giorni prima. Quella domenica era stata con amici fuori in gita in un paese del Lazio ed era rientrata a casa in serata per preparare la cena, prima di attaccarsi al telefono. L’ultima chiamata è delle 23. L’ultima persona che l’ha vista il garagista, che l’ha notata rientrare con la sua A112. Poi il nulla.
La madre la mattina seguente si preoccupa quando non la vede arrivare al lavoro. Il telefono di casa della commercialista squilla a vuoto e dall’altra parte alla fine risponde solo la segreteria telefonica. Chiama allora l’altra figlia Carla, che con il marito si precipita in via Oliva. Una vicina di casa ha una copia delle chiavi ed entra con loro. Trovano i piatti sporchi in cucina, cicche di sigarette e due bicchieri su un comodino. Poi arriva anche Umberto Nardinocchi, il ragioniere con il quale Antonella ha avuto una storia. I due ex sono soci in affari, rimasti amici, ma frequenti sono tra loro le liti per motivi di gelosia. L’uomo è lì con il figlio e un poliziotto e dalla bocca gli esce una strana frase, indirizzata proprio all’agente: «Guarda se sotto il letto ci sono dei bossoli».
Arriva poi martedì. Antonella sembra essersi dissolta nel nulla. Parte una nuova spedizione: alle 17 la sorella e il marito tornano nell’appartamento di Talenti, mettono i guanti, controllano ovunque e trovano il cadavere. Si scoprirà che la donna è stata uccisa tra il 10 e l’11 aprile. È stata stordita, facendole bere del Roipnol, poi mentre era sul letto l’assassino le ha premuto un cuscino in testa per attutire il rumore e ha fatto fuoco due volte con una pistola di piccolo calibro.
Il cadavere della donna nell’armadio, come verrà poi ribattezzato dalle cronache il delitto, lascia tutti senza parole. Chi è il killer? Gli investigatori vanno a fondo nella vita della professionista romana e scoprono che oltre a Nardonocchi in passato frequentava un fotografo cinquantenne, Vittorio Biffani. È sposato ma di lui si era follemente innamorata ed è sua la voce che risponde nella segreteria telefonica di Antonella.
La loro è la classica relazione extraconiugale se non fosse per il fatto che lui le regalato un orologio d’oro che era del padre, lei gli presta 42 milioni. Come da copione, però, Biffani non lascia la moglie che viene a scoprire tutto e inizia a tempestare la rivale di telefonate.
L’uomo entra pesantemente nelle indagini insieme a Nardinocchi, che da qualcuno era stato visto litigare con la Di Veroli. All’esame dello stub risultano entrambi positivi.
Ma il ragioniere si giustifica dicendo che due giorni prima era stato al poligono. Gli investigatori gli contestano di aver i bossoli in camera di Antonella, ma lui nega e nega anche di aver con l’ex, avendo scoperto della relazione con il fotografo solo ora che è morta. Poco dopo la sua posizione viene archiviata. Biffani, invece, se la vede brutta per un po’ perché non sa spiegare perché nelle mani ha polvere da sparo. E poi c’è quel debito di 42 milioni di lire che potrebbe essere il movente perfetto per un delitto. Viene iscritto nel registro degli indagati, insieme alla moglie, ma durante il processo il colpo di scena: il Dna sul reperto dello stub non è suo ma di un’altra persona. Qualcuno ha erroneamente invertito i campioni. Tre assoluzioni finché a scrivere la parola fine sulla storia è la Cassazione.
Nessun colpevole, dunque, complici gli errori processuali e il fatto che non si è mai più trovato il pianale dell’armadio su cui era stato adagiato il corpo di Antonella, su cui c’era una traccia di sangue. Come se non bastasse, nessuno si è mai preoccupato di controllare se ci fossero impronte sulla busta che la vittima aveva sulla testa.
E con chi ce l’aveva quando prima di essere uccisa sul suo diario scrisse: «Io non ho bisogno di offendere per sentirmi realizzata, perché già sono realizzata. Ma se questo ancora il cane sciolto non l’avesse capito o fosse solo invidia, adesso è arrivato il momento giusto per dimostrarglielo». Mistero.
Saranno 106 alla fine i testimoni ma il killer resta nell’oscurità. Poi sembra arrivare la svolta: si scopre che per San Valentino la commercialista aveva comprato due regali una cinta e un portafogli. Su entrambi aveva fatto incidere le iniziali della persona a cui le avrebbe donate. Il secondo presente non era per Biffani o Nardinocchi ma per una persona il cui nome inizia per E. Il famoso mister X di cui si parlerà per anni ma del quale non si troverà mai traccia.
Un cold case che secondo il legale Mauro Cusatelli, all’epoca avvocato di parte civile, con le nuove tecniche su impronte e Dna forse potrebbe ancora essere risolto.