1 luglio 2019
Tags : Pierre Cardin
Biografia di Pierre Cardin
Pierre Cardin (Pietro Costante C.), nato a Sant’Andrea di Barbarana (San Biagio di Callalta, Treviso) il 2 luglio 1922 (97 anni); doppia cittadinanza italiana e francese. Stilista. Progettista. Imprenditore. «Cardin è prima di tutto uno stilista, ovvio, ma è anche un talento naturale nell’arte di fare i soldi: il primo a capire che il suo nome, la "griffe" Cardin, poteva diventare un valore aggiunto, una macchina per far quattrini» (Giampiero Martinotti). «Sono insieme un industriale, un commerciante, un creatore, un grande viaggiatore, un direttore di teatro. […] Vendo e appongo il mio marchio senza sosta, e ne sono felice: perché un nome è mortale, ma il marchio resta» • «Tutti lo chiamano Cardèn, in realtà all’anagrafe è Pietro Cardìn, con l’accento sulla “i”, alla veneta» (Stefano Lorenzetto). «Veneto di nascita, parigino d’adozione, internazionale per vocazione: la sua griffe è presente in 160 Paesi» (Stefano Righi) • «Ultimo degli otto figli di un possidente terriero rovinato dalla Grande guerra, costretto a emigrare oltralpe nel 1924» (Lorenzetto). «Pietro aveva due anni. "Dovevamo rimanere tre mesi. Non siamo più partiti", dice» (Laura Putti). «La Francia li accoglie. Pietro diventa Pierre. E in francese il vero cognome suona bene» (Putti). Iniziato ad appena quattordici anni l’apprendistato presso una sartoria di Saint-Étienne, in seguito «"andai a vivere a Vichy. Lì trascorsi gli anni della guerra tra il ’40 e il ’45, e quindi venni a Parigi, dove cominciai a lavorare nella moda nella famosissima sartoria Paquin". Ma com’era Vichy durante la guerra? "Io mi occupavo della Croce rossa. Mi occupavo di persone povere, che avevano problemi e che cercavo di aiutare. Devo dire che malgrado la guerra stavo bene. Avevo vent’anni e passavo attraverso le cose. Fui arrestato dai tedeschi a Moulins mentre cercavo di raggiungere Parigi: per fortuna non ero ebreo, e così non fui deportato. Dopo la guerra non me la sentivo, di continuare a fare il funzionario della Croce rossa. Una medium che mi fece le carte, una donna di 65 anni, a Vichy, mi disse che avrei avuto un successo, una riuscita eccezionale, e che il mio nome sarebbe stato conosciuto anche in Australia. Io pensavo che fosse pazza, perché a quell’epoca non avevo nulla, e le ho chiesto un indirizzo per entrare in una sartoria. Quando sono arrivato a Parigi, mi ricordo che la mattina presto a rue Royale, mentre andavo a casa di quella persona di cui mi aveva dato l’indirizzo, trovai per strada un uomo a cui chiesi dov’era quella casa, e scopersi che era lui la persona che dovevo incontrare. Mi presentò a Paquin, e lì ho conosciuto Cocteau, Bérard, Jean Marais. Facevano i costumi per il film La Belle et la Bête"» (Alain Elkann). Inizialmente, in realtà, «volevo fare il ballerino. Per pagarmi i corsi di danza ho cominciato a lavorare da Paquin, poi da Schiaparelli. Ma a un certo punto ho pensato: non potrò danzare tutta la vita. Devo trovare un mestiere che mi dia un’occupazione durevole. Farò il sarto». «Sono stato il primo assunto della maison Dior. Dior doveva ancora aprire bottega, e io ero già lì fuori che aspettavo. Era il 1946: mi sembra ieri. Ero nel luogo giusto, nel momento giusto: Parigi, subito dopo la guerra. C’era grande voglia di vivere, di ricominciare, di provare. L’aria era sempre frizzante. Frequentavo gente di teatro. Sono stato molto fortunato». Diede sin da subito ottima prova di sé: «taglia lieve come un angelo e veloce come una saetta. Cuce benissimo» (Putti). «Parigi, anno di grazia 1947. Christian Dior presenta i suoi modelli con una festa sontuosa, cui sono invitati solo gli addetti del grande "couturier". Verso la fine di quel ricevimento, rimasto nella memoria di chi vi partecipò, il pontefice dell’alta moda, l’uomo che faceva impazzire le signore di mezzo mondo, chiamò un’indossatrice e mostrò ai suoi invitati un tailleur […] con giacca attillata e gonna larghissima, […] che i presenti giudicarono subito straordinario. La reazione degli invitati fu entusiastica, e Dior arrestò gli applausi: "Devo confessarvi una cosa – disse a quella sala piena di gente che lo adorava come se fosse un dio venuto a soddisfare la loro smodata voglia di lusso –. Questo abito non è mio. È di un giovane che diventerà il più grande sarto di Parigi, Pierre Cardin". In questo modo quel giovane […] entrava nella storia della moda e del costume, una storia cui dette un contributo impareggiabile» (Martinotti). «Nel ’50 si mette in proprio, nel ’53 presenta la prima collezione (con il celeberrimo cappotto rosso, il suo rosso)» (Putti). «Un capo della sfilata fece la sua fortuna: quel cappotto rosso a pieghe, poi replicato su larga scala negli Usa in 200 mila esemplari. Da qui l’idea di avviare il sistema delle licenze della griffe» (Francesca Basso). «Le linee sono moderne: le sue "robes bulles" – futuriste, spaziali (ben prima della conquista della Luna) e molto corte (prima di Mary Quant) – sorprendono, sconvolgono, trionfano. Utilizza materiali sintetici, tessuti tecnici. Veste regine e attrici, crea divise per hostess e infermiere. Veste anche i Beatles: la giacca beige con bordino nero, vagamente tirolese, indossata come un’uniforme dai quattro di Liverpool negli anni più ruggenti. Ma nella carriera di Pierre Cardin la data da ricordare è il 1959. Anno in cui, nei grandi magazzini Printemps, il sarto fa sfilare la prima collezione (al mondo) di prêt-à-porter. Per la prima volta nella storia della moda un "couturier" pensa a una donna moderna, lavoratrice, impegnata, non più soltanto figura di rappresentanza accanto a un uomo. La "Chambre syndicale de la Mode" lo espelle. “Ho sempre avuto idee socialiste. Mi accorgevo che anche le mogli degli ambasciatori cominciavano a lavorare, che la vita sociale della donna cambiava. Che, una volta tornate a casa, anche le donne erano stanche e non avevano più voglia di uscire. Avevano bisogno di una moda che assecondasse il loro cambiamento. E questa moda non era più la ‘haute couture’. Lo avevo capito […] prima di tutti, e per questo mi hanno cacciato. Non rispettavo più le regole. Mi è dispiaciuto, ma ho pensato: me ne vado per poter aiutare gli altri. Ero giovanissimo, ambizioso, dinamico. Tre anni dopo, la Chambre mi ha chiesto di tornare. ‘Vous êtes gentils…’, ho risposto loro, rifiutando. Oggi è il prêt-à-porter che fa guadagnare la moda”» (Putti). «Firmai una serie di accordi con catene di grandi magazzini in Gran Bretagna, Francia e Germania. In Italia feci un accordo con la Rinascente. Fu uno choc per molti. I colleghi dicevano: fra tre anni non ci si ricorderà più di Pierre Cardin». «Beh, signori, in dieci anni ho guadagnato tanti di quei soldi, cifre talmente colossali, somme così gigantesche, da potere partire alla conquista del mondo intero: l’Australia, l’Africa, la Cina, e […] la Russia. E ho costruito il mio impero, fatto non soltanto di tailleurs, ma anche di mobili, aerei firmati, portaceneri, tendaggi, lampade, accendisigari, piastrelle. […] Oh, gli altri sarti mi criticavano: non è il tuo mestiere, il tuo mestiere è lo chiffon, dicevano. E invece si possono fare tante cose contemporaneamente: io sono un uomo d’affari, mi piace fare di tutto, tentare, sperimentare». Cardin, infatti, fu «il primo, fondamentalmente, a capitalizzare sull’industria della "griffe", sul marchio, sulla firma, applicata con furore non soltanto sulle cravatte ma anche sugli aerei, non solo sul foulard ma anche sulla saliera. […] "Ho il senso totale del mestiere, so disegnare, tagliare, cucire, inventare; creo prototipi che aiutano la vita; sono sempre stato libero; ho sempre avuto fortuna, e anche coraggio. Ho guadagnato e continuo a guadagnare tantissimi soldi, e li investo, e continuo a fare affari"» (Laura Laurenzi). «Il giovanotto veneto a cui Dior pronosticava un futuro da primo sarto di Parigi è diventato molto di più, una multinazionale del lusso. Cardin, infatti, non si è accontentato di mettere il suo nome su quattrocento e passa oggetti, da cui riceve "royalties" favolose. Si è voluto lanciare anche in altri campi. Ha cominciato togliendosi un capriccio aprendo l’Espace Cardin, un teatro in pieno centro di Parigi in cui si fa di tutto, dalla musica alla prosa, in cui ha cantato Marlene Dietrich e in cui Bob Wilson ha mandato in tripudio per la prima volta i critici teatrali del Vecchio Continente. Un capriccio che gli è costato qualche miliardo, un tributo alla cultura, ma anche una scommessa sull’immagine, un passo verso la sponsorizzazione delle iniziative culturali, diventata oggi prassi comune nelle grandi industrie. Dopo l’Espace Cardin sono venuti i ristoranti, in primo luogo il celeberrimo Maxim’s, […] forse il più famoso del mondo. Dal 1981 il ristorante della rue Royale è interamente nelle mani di Cardin, numero uno di una catena del cibo di lusso. […] Cardin è riuscito ad aprire un "Maxim’s" a Pechino, un avvenimento di cui parlò tutta la stampa mondiale: il mago del lusso in un Paese povero e per di più comunista. Anche questo fu un colpo di genio, un ottimo investimento pubblicitario e al contempo finanziario» (Martinotti). «Nel 1978 andava in Cina per la prima volta. Cosa rimpiange di quella Cina? “Nessun rimpianto. La Cina si è molto evoluta, e in tempi record. Quando andai lì, ero un hippy per loro, ma allo stesso tempo mi ammiravano tanto”. Altro momento memorabile, la sfilata a Mosca nel 1991. Ricordi? “A quella sfilata erano presenti 200.000 persone. Sono stato il primo ad utilizzare la piazza Rossa per una sfilata: è stata una grande emozione, anche per il significato simbolico, direi culturale, che l’evento aveva assunto”» (Piera Anna Franini). «Negli ultimi anni Cardin ha avuto con la moda un rapporto discontinuo. Nel suo comprensibile delirio di onnipotenza deve sembrargli di aver già inventato ed espresso tutto. A Jean-Paul Gaultier che, diciottenne, gli fu assistente il Maestro diceva: “Togli quegli orpelli, fai tutto più lineare. Gli orpelli, lasciali a quelli che mi copieranno”. Negli ultimi tempi, però, si è tolto un paio di sfizi fashion: nel 2007 ha fatto montare una "catwalk" sulla sabbia del deserto dei Gobi, non distante da Pechino, e ha fatto sfilare un centinaio di modelle con abiti e accessori creati nelle sue trentotto fabbriche cinesi» (Putti). Ancora assai lucido, agile e giovanile nonostante la veneranda età, Cardin è tuttora in attività. «Il novello Dorian Gray non vuol rivelare dove tiene nascosto il ritratto che invecchia al posto suo. […] Una cosa appare certa: da qualche parte c’è un volto che si sta avvicinando al secolo di vita, però non è quello di Pierre Cardin, il decano dell’alta moda con la vitalità di un cinquantenne. […] La sua giornata comincia di notte. “Mi sveglio più volte per appuntarmi le idee che mi vengono in mente. La mattina mi reco in ufficio e consegno ai miei collaboratori i bozzetti dei nuovi modelli da realizzare. Poi attacco con gli appuntamenti, che spesso proseguono a pranzo”. Mangia da Minim’s, brasserie porta a porta con il celebrato Maxim’s, a pochi metri da Place de la Concorde. “Nel pomeriggio gestisco l’universo delle griffe Cardin, dalle boutique ai ristoranti. Per me è fondamentale monitorare tutto. Alle 20, un’occhiata alle news. Poi esco a cena con amici o con mio nipote Rodrigo”. Ingegnere, diplomato in pianoforte, Rodrigo Basilicati, 47 anni, padovano, è figlio di Lucrezia Cardin, il cui padre Erminio era il fratello terzogenito del couturier. “Da tempo l’ho designato mio erede artistico”, dice il prozio. Lei fu il primo, nel 1959, a creare la moda pronta. Ora [nel 2018 – ndr] ha annunciato il ritiro dal prêt-à-porter. Perché? “Perché lo fanno tutti”» (Lorenzetto) • «Talento […] multiforme: dai primi costumi per i film di Cocteau e Visconti agli ultimi due spettacoli […] prodotti (Dorian Gray e Marlene Dietrich), si è anche applicato all’architettura immaginando quel Palais Lumière, un grattacielo che doveva sorgere vicino a Venezia, progetto rimasto una chimera» (Basso). «È arrabbiato con Venezia per la bocciatura del suo Palais Lumière alto 250 metri? “Ma no, sono le cose della vita”. Chi ha contrastato di più il progetto? “Una certa politica del ‘no’ a prescindere. Credevo di aver offerto una straordinaria opportunità per la rinascita di Porto Marghera. La storia giudicherà”. Vent’anni fa voleva ricostruire il Faro di Alessandria, una delle sette meraviglie del mondo, distrutto da un terremoto nel 1302. “Ci credevo molto. L’avevo immaginato come un obelisco di luce. Il presidente egiziano Hosni Mubarak mi ricevette due volte al Cairo. Sembrava cosa fatta, poi tutto si è bloccato. Quando ci sono di mezzo i politici, non sai mai come andrà a finire”. Un obelisco di 150 metri. Insegue il desiderio di perpetuare il ricordo di sé con un’architettura che sfidi il cielo? “No, è solo il piacere di un’emozione”» (Lorenzetto) • Rilevante anche la sua attività di progettista. «Quella per i mobili e il design è molto di più che un’idea commerciale di successo: è una forma d’arte, e quando deve trovare una definizione per sé lui si dice “scultore”. “Volevo dar forma a mobili come sculture da poter guardare da diverse angolazioni, come i corpi che vesto”, dice. […] “Per me abiti e mobili sono entrambi sculture, solo che i primi devono anche camminare!”. Confessa di amarli entrambi, però dice di aver cominciato a fare prima mobili che vestiti. “Avevo 8 anni e tutti i giovedì andavo nella falegnameria di un mio compagno di scuola, prendevamo pezzetti di legno di scarto e li scolpivamo”. Così, quando, oltre che “pensare in grande”, poté anche “fare”, comprò una falegnameria con macchinari e tutto, e lì comincio a produrre i suoi mobili laccati. “E fu un grande successo da subito”, sorride. Il successo nasceva da un’estetica precisa: “È la forma che diventa utile e viene prima del mobile”, spiega. “Non ho mai fatto un armadio che fosse solo un armadio: prima doveva essere altro…”» (Sara Ricotta Voza). «“Sculture utilitarie” chiama i suoi pezzi d’arredo il grande couturier, […] sottolineando il lato pratico dell’utilizzo di queste opere. […] “Non sono solo pezzi decorativi, ma funzionali; possono essere usati recto e verso. Ho fatto mobili in acciaio, in legno. Ma la lacca è il materiale che prediligo, e che non passa mai di moda: ogni mobile è ricoperto da sette strati di lacca. Amo il processo della creazione e della fabbricazione, ma quando poi le cose esistono concretamente le sento meno mie, me ne distacco”» (Basso) • Apertamente omosessuale, ha indicato l’unica donna della sua vita nell’attrice Jeanne Moreau (1928-2017). «Con lei ha vissuto per quattro anni all’inizio dei Sessanta, fu amica e musa, con lei provò ad avere un figlio che non arrivò, e che ancora oggi rimpiange. Dicono che per convincerlo l’attrice gli mandasse rose rosse ogni giorno e che, quando lui cedette, confermò la sua teoria secondo la quale ogni uomo si poteva avere. "Non ricordo tutte queste cose"» (Putti) • «Perché è importante avere figli? “Perché ti danno prospettiva. Offrono l’opportunità di trasmettere loro la tua esperienza. Così la società progredisce”. […] È favorevole o contrario alle adozioni omosessuali? “Non sono l’ideale, a mio avviso”» (Lorenzetto) • Cattolico non praticante. «In che rapporti è con il Padreterno? “Lo rispetto”» (Lorenzetto) • «Da buon veneto che crede nel mattone, tra le decine di appartamenti, ville e castelli, Cardin possiede tre dimore storiche, il Palais Bulles affacciato sul mare della Costa Azzurra, il castello di Lacoste nel quale abitò il marchese de Sade e Ca’ Bragadin, uno dei palazzi veneziani dove visse Giacomo Casanova» (Putti) • «Non bevo, non faccio sport, inorridisco all’idea di espormi al sole per ore e ore, non sopporto i locali notturni, giocare a carte mi annoia. Assistere a un incontro di calcio per me è molto peggio che lavorare, è peggio che essere in prigione. E, siccome non ho conti da rendere a nessuno, posso fare quel che voglio. Non ho mai avuto padroni, a parte Christian Dior» • «Si è mai fatto ritocchi estetici lei? "Mai. Ho quasi cent’anni e neanche una ruga. Ma non mi importa nulla di queste cose, non voglio mica nascondere l’età"» (Putti) • «Il mio colore prediletto è il verde, quello della foresta che amavo da piccolo. E poi è il respiro» • «Il futuro, quindi lo spazio, lo hanno sempre attratto. Ormai leggendaria è la sua visita a Cape Canaveral, quando con una bella mancia corruppe un guardiano della Nasa, entrò e si fece una foto nella tuta di Neil Armstrong, indossata al primo sbarco sulla Luna» (Putti). «Per indossare la tuta diedi al custode una bustarella e m’infilai nello scafandro. Ma ciò che più m’inorgoglisce è di essere stato l’unico a potersi sedere sul seggiolino servito allo sbarco sulla Luna» • «In Cina come in Russia, Cardin produce abiti, accessori, occhiali, profumi, pelletteria, mobili, vasellame, cibo: e tutto a suo nome. Una produzione molto eclettica che gli è valsa la fama di uno che ha venduto l’anima. La cosa non sembra colpirlo. “Ogni Paese ha i suoi gusti. Un abito, un colore, un materiale che piace qui non piace in Cina, o in Russia. Sono costretto a creare cose diverse per ogni Paese”» (Putti) • «Ho svolto vari lavori prima di diventare sarto. Ho fatto il contabile della Croce rossa a Vichy. La professione di ragioniere mi ha reso libero, anche di rischiare, tenendomi lontano dalle banche. Nel 1945, appena arrivato a Parigi, […] mi sarebbe piaciuto diventare ballerino. Sono stato attore. Ho diretto vari miei teatri. Da imprenditore mi sono occupato di molteplici attività, inclusa una fonte di acqua minerale nel Parco nazionale del Casentino. Ho persino insegnato». «Ho avuto la fortuna di realizzare tutto quello che volevo, senza bisogno di banche o mecenati» • «Sin da giovane mi sentivo portato a fare il leader: per questo, nel 1950, dopo l’esperienza da Dior, ho compiuto la scelta coraggiosa di fondare una mia maison. E ancor oggi sono io a guidarla. Probabilmente ho dimostrato di possedere qualche dote». «Sono fiero di tutto quello che ho fatto. La più grande soddisfazione che ho avuto è stata quella di essere stato nominato membro dell’Académie des Beaux-Arts de l’Institut de France: sono diventato immortale! Pensi che alla solenne cerimonia di insediamento era presente anche un caro amico italiano, Gianni Agnelli» • «Uno stile sempre sperimentale, sempre proteso al futuro, applicato all’abito come al design. Per Cardin disegnare una manica o la gamba di un tavolo è partire dallo stesso denominatore, la linea. A volte retta, a volte curva. “La forma rotonda è l’infinito”, commenta» (Basso) • «A teatro ho lavorato con i più grandi, e così nel cinema, da Visconti a Zeffirelli, ma non ho mai confuso i costumi di scena con gli abiti per la vita di tutti i giorni» • «Io ho imparato con Dior. Non bisogna mostrare troppo. Per me l’eleganza è dissimulare. Oggi si mostra tutto. Io non voglio sembrare vecchio e noioso, ma per me quello che conta è il vestito: il corpo è un liquido che prende la forma del vaso». «Fra gli stilisti italiani chi preferisce? “Non credo di conoscerli tutti e in modo adeguato. In Francia 40-50 anni fa erano molto apprezzati nomi come Valentino e Roberto Capucci. Ognuno fa storia a sé, con il proprio stile. Quando c’è. Oggi alcuni stilisti sono noti solo perché a spingerli ci sono la finanza e la pubblicità. Ma senza indossatrici da copertina e celebrity qualcuno si accorgerebbe di ciò che creano? Chiuda gli occhi. Ricorda un loro abito? La moda è arte”. Con quale di loro è più in confidenza? “Con Giorgio Armani c’è un rapporto di reciproco rispetto. Ci inviamo dei saluti, di tanto in tanto. Lui è persona gentile, ha una classe d’altri tempi”» (Lorenzetto). «Ai molti giovani che ancor oggi vengono a chiedermi dei consigli dico sempre che devono avere il coraggio di osare, se del caso anche di provocare: senza paure e senza mai copiare! Un vero artista non può limitarsi a sognare, ma deve adoperarsi ogni giorno per tradurre i sogni in realtà, senza scendere a patti con nessuno» • «Che cosa ha imparato da suo padre? “L’eleganza nei modi”. E da sua madre? “Lei era un’intellettuale”. Che cosa è rimasto di veneto in lei? “Tutto! Persino a tavola. Polenta e schie (gamberetti della laguna veneta, ndr) è il mio piatto preferito”» (Lorenzetto). «“In tutto questo mio percorso di vita, sono rimasto molto italiano”. Dove avverte questa italianità? “Nel sentimento e nel modo di pensare, anzitutto. E poi nell’abilità di lavorare anche in maniera artigianale, tratto tipico di tanti italiani. So cucire, tagliare un abito: non mi limito solo a disegnare, sa? Mi sento poi molto veneto come risparmiatore, perché investo il denaro che guadagno nell’acquisto di immobili, e questa è una caratteristica della gente della mia terra, che mi ha messo al riparo dalle tempeste finanziarie”. In cosa, invece, si sente francese? “Nella sensibilità di comportamento che ho appreso vivendo in una capitale come Parigi e frequentando certi ambienti molto stimolanti e di classe”» (Franini). «Più passano gli anni e più mi sento italiano. Non parlo bene l’italiano: in fondo l’ho imparato tardi e durante le vacanze. Ma mi sento interiormente, emozionalmente, spiritualmente italiano. Mi abbandono a questo sentimento, ed è piuttosto piacevole» • «Ho avuto fortuna, ma ho anche lavorato moltissimo. Il mio unico desiderio è di poter continuare a farlo». «Trovo più divertimento nel mio lavoro che in una vacanza o festa. Spesso trascorro la domenica nel mio atelier per sistemare gli abiti haute couture che sono in lavorazione. Se c’è passione, il lavoro non è un peso». «È la moda, la creazione degli abiti, la cosa che faccio con maggior piacere. Il resto è complementare: i ristoranti, gli alberghi sono occupazioni che mi aiutano a cambiare punto di vista, a vedere le cose sotto un’altra luce. Il segreto forse è proprio quello. Cambiare le cose, mischiare. E poi lavorare tanto: fa bene alla salute, e io sono qui a dimostrarlo». «Penso sempre a spingermi più in là nella creazione. Immagino sempre qualcosa che non esiste, guardo gli altri per non ripetere ciò che è già stato fatto. La moda non è necessaria, ma è utile: producendo fa diminuire la disoccupazione. Sono appassionato d’arte, ma non ho mai guardato alla pittura per ispirarmi: tutto deriva dal mio inconscio». «Sono i giovani che fanno la moda, non i vecchi. Io faccio parte dei vecchi, ma sono rimasto giovane».