L’Economia, 1 luglio 2019
Non solo Trump, governi contro governatori
Donald Trump si è pentito di avere nominato Jerome Powell a presidente della Federal Reserve. Si augura di avere al suo posto un banchiere centrale espansionista come Mario Draghi, ma allo stesso tempo attacca il presidente della Banca centrale europea perché manovrerebbe per deprimere il tasso di cambio dell’euro a scopo competitivo.
In Europa, gli elogi a Draghi si moltiplicano, ora che è vicinissimo alla fine del suo mandato (il 31 ottobre). Ma nei mesi e negli anni scorsi le critiche alla sua determinata conduzione della Bce sono state innumerevoli, da parte di esponenti del governo tedesco ma anche di quelli di altri Paesi; e la scelta del suo successore è oggetto di contenzioso politico come mai prima. A Delhi, la Reserve Bank of India soffre di un’emorragia al vertice, messo sotto pressione dagli uomini del primo ministro Narendra Modi. Il governatore della Bank of England Mark Carney è spesso criticato dai parlamentari quando parla degli effetti economici della Brexit ed è aperta la battaglia per nominare il suo successore: anch’egli termina il mandato a fine ottobre. In Italia, proposte di legge per stringere il controllo politico sulla Banca d’Italia – e sull’oro nazionale – sono in piena discussione.
L’assedio Cosa succede? Le banche centrali sono sotto assedio in tutto il mondo? Non sono più «the only game in town» come lo erano fino a poco tempo fa? In parallelo agli arretramenti della globalizzazione e al ritorno della geopolitica, i governi hanno ripreso la centralità che avevano perso? È insomma finita la stagione dell’indipendenza dei governatori e delle autorità monetarie che ha accompagnato la fase liberale – o moderatamente liberale – iniziata negli Anni Ottanta? Cambia il paradigma che ha trionfato nei decenni del «mondo piatto», senza frontiere, e che ora sembra non resistere all’alzarsi delle barriere protezioniste, all’accelerato attivismo dei governi delle maggiori potenze, allo scontro per nuovi equilibri strategici? Certamente, lo scontro è in atto e si moltiplicano le spinte per una nuova fase: per molti versi, un ritorno agli Anni Settanta in cui i governi dominavano la scena, anche finanziaria e monetaria.
Per essere chiari: le banche centrali detengono tuttora un potere straordinario. La risposta che quelle occidentali hanno dato alla crisi del 2008 ha ampliato la portata del loro intervento in aree mai toccate prima, un po’ per necessità obiettiva, un po’ per i limiti dei governi, in particolare dell’Eurozona. Il risultato è che, soprattutto in seguito ai Quantitative Easing lanciati, gli investitori si muovono da anni molto più sulla base di quanti titoli le autorità monetarie decidono di comprare sui mercati che in base ai fondamentali delle economie e delle aziende. Il che dà loro un potere straordinario, che appunto ha fatto parlare delle banche centrali come dell’unica partita in città. È un potere che persiste. La cornice attorno a loro, però, è radicalmente cambiata rispetto al 2008 e agli anni immediatamente successivi.
Trump è l’avanguardia di questo attacco all’indipendenza delle autorità monetarie. È continuamente critico con Powell, che egli stesso ha nominato alla guida della Fed, in quanto ha alzato i tassi d’interesse e ora è lento a cambiare direzione. «Non sa quello che fa», ha sostenuto di recente il presidente riferendosi al suo nominato. «Dovremmo avere Draghi invece della nostra persona alla Fed», ha poi detto: notando che il banchiere europeo è per lo stimolo all’economia, a differenza di quello americano. Due giorni prima, però, Trump aveva accusato Draghi di manipolare «ingiustamente» l’euro per fargli perdere valore e aiutare le esportazioni europee. La Casa Bianca, insomma, vedrebbe bene una gara transatlantica di svalutazioni competitive (sarebbe un salto di qualità nella guerra commerciale già in corso).
Trump, però, non è il solo a mettere il naso negli affari monetari. Nell’Eurozona, la scelta del sostituto di Draghi si è colorata di una tinta interamente politica, nella quale le competenze sono considerate ma non come primo elemento (non era stato così otto anni fa, quando fu scelto il banchiere italiano). Così pure gli attacchi frequenti alla Banca d’Italia fanno capo a movimenti interni al governo di Roma e sono utilizzati per influenzare il contenzioso con la Ue.
In India, si è appena dimesso il vice-governatore Viral Acharya, che lo scorso ottobre aveva parlato degli effetti «potenzialmente catastrofici» delle iniziative del governo Modi per influenzare la Reserve Bank. Sei mesi fa si era dimesso il governatore Urjit Patel. Nel 2016, lo stesso Modi aveva spinto l’allora governatore, lo stimatissimo Raghuram Rajan, a non riproporsi per un secondo mandato (Rajan è oggi tra i candidati alla guida della Bank of England). A Londra, intanto, Carney è stato definito da uno dei leader favorevoli alla Brexit, Jacob Rees-Mogg, «una creatura del governo».
Non è che i politici si siano svegliati all’improvviso e abbiano notato che i governatori toglievano loro lavoro. È che l’emergere della competizione strategica tra Paesi ha riportato lo scontro sugli interessi nazionali in primo piano, sacrificando l’idea che la globalizzazione fosse in sostanza un fatto economico – più tecnico che politico – nel quale le capitali e le cancellerie avevano poco da dire. Il clima è del tutto cambiato: Trump, Xi Jinping, Vladimir Putin e altri «leader forti» sostengono che gli anni del liberalismo sono finiti: che l’idea liberale è «obsoleta», secondo il presidente russo. E che quindi tutto deve tornare sotto il controllo dei governi, a cominciare dall’economia e dalle valute.
Come negli Anni Settanta, prima che arrivassero sulla scena Margaret Thatcher e Ronald Reagan.