Corriere della Sera, 1 luglio 2019
Intervista a Piera Degli Esposti
«Ogni volta che la vedevo saltare in sella alla bicicletta, venivo assalita dall’ansia e correvo fuori a cercarla». Piera Degli Esposti parla della madre con tenerezza, come fosse sua figlia. Una famiglia complicata la sua, raccontata in Storia di Piera e poi nel film di Marco Ferreri: il padre sindacalista, la mamma segretaria di un avvocato, ma con grossi problemi sotto il profilo sessuale; un fratello più piccolo, una sorellastra e un fratellastro molto più grandi.
«Ho avuto il coraggio di non vergognarmi della figura estrema, dal punto di vista sessuale, di mia madre. Un personaggio che è stato al centro delle mie paure».
Quali?
«La paura della gente che spettegolava dietro le spalle, la paura dei commenti di una città, Bologna, che era pur sempre cattocomunista. La paura di sentire le critiche, di uscire dalla porta di casa, ben sapendo che mia madre era già fuori da ore. Ero terrorizzata e credo che questo stato d’animo me lo abbia fatto passare il teatro e la terapia psicoanalitica».
A che età ha scoperto gli eccessi di sua madre?
«Ho scoperto la sua ninfomania intorno ai 12 anni, sfogliando, di nascosto, un album di foto che le apparteneva: erano foto artistiche, ma erotiche, molto spinte. E un giorno l’apostrofai con tono provocatorio: ho trovato il tuo album...».
Lei si arrabbiò?
«No! Mi guardò fissa e mi rispose: ti sei emozionata? Mi parlava come a un’amica coetanea e così, senza volerlo, iniziai con lei un rapporto confidenziale. Spesso spariva a notte fonda oppure il giorno andava in campagna dove si intratteneva con certi contadini e io, che poi la seguivo, andavo da quegli uomini a fare la Sherlock Holmes della situazione, li interrogavo con domande imbarazzanti».
E loro rispondevano a una ragazzina?
«Certo! Mi dicevano: tua madre non fa niente di male, dà via del suo, non toglie niente agli altri... A un certo punto, mia madre ed io cominciammo a uscire insieme, a scambiarci confidenze su questo o quell’uomo, soprattutto quelli più giovani di lei. Non l’ho mai trovata a letto con qualcuno, ma tra noi ci fu lo scambio di un amante: era un ragazzo che con me si limitava a bacini e carezze, poi andava da lei per consumare il rapporto carnale. Tuttavia la nuova complicità riservata che era nata tra madre e figlia mi rassicurava, non ero più costretta a rincorrerla quando scappava in bici: potevo tenerla sotto controllo».
E suo padre?
«Ne soffriva tanto e io soffrivo della sua sofferenza, ero gelosa del loro legame perché, come tutte le figlie femmine, volevo che amasse me e non la mamma: io ero giudiziosa, lei non lo era però dominava i suoi pensieri di uomo, mentre io, evidentemente, non ero il suo tipo... Oltretutto, a causa della condotta della moglie venne trasferito dal partito, da Bologna a Verona: una donna che si comportava in quel modo non si addiceva a un sindacalista serio e impegnato. Ricordo la frase che papà scrisse in quell’occasione: “Apprendo dai giornali il mio trasferimento in Veneto! Una decisione che appartiene a una mentalità pressapochista e pasticciona, da cui mi terrò ben lontano”».
Dunque suo padre difendeva sua madre...
«Lui difendeva il proprio ruolo di capofamiglia e non sopportava l’idea di lasciare a casa una figlia di 14 anni, io, a governare l’andamento casalingo. Papà era innamorato di mia madre, era convinto che si sarebbe pentita del suo sconsiderato comportamento».
Invece finì in manicomio...
«Avrò avuto 17-18 anni. Ricordo con dolore quando vennero a prenderla: apriva il finestrino dell’auto e urlava: «Mi portano in manicomio!». Prese a schiaffi anche me, che aspettavo nel corridoio dell’ospedale mentre subiva l’elettroshock: l’ho molto amata, però non so quanto ricambiasse il mio sentimento. Era una donna che non voleva conquistare, non era narcisista, nemmeno seduttiva».
E la vecchiaia di suo padre?
«Altrettanto dolorosa: gli andava via la memoria e venne ricoverato in un istituto, dove a quei tempi legavano le persone»
Finalmente è arrivato il teatro a tirarla fuori dal caos familiare.
«Direi salvifico, anche se all’inizio la mia è stata una strada tutta in salita: volevo entrare in Accademia d’Arte Drammatica Silvio d’Amico, ma fui bocciata ai provini, perché avevo un modo diverso di muovere il corpo, di parlare, di gesticolare, che contrastava con la compostezza in scena degli attori dell’epoca. Piacevo solo a due insegnanti, Sergio Tofano e a Giorgio Bassani che cercavano di aiutarmi. D’altronde pure il mio percorso scolastico precedente era stato scombinato. Da ragazzina frequentavo la stessa scuola di Lucio Dalla, ma in classi differenti: ero un’insicura e arrivai fino alla quinta elementare, poi continuai a studiare con mio padre a casa. Insomma, sono stata una diversa in tutto».
Finché qualcuno si accorse della sua diversità: il regista Antonio Calenda.
«Mi accolse nel suo teatro sperimentale dei 101, era una cantina, una fucina dove sono nati personaggi come Gigi Proietti, Francesca Benedetti, Virginio Gazzolo... Il mio debutto fu in un ruolo maschile: interpretavo un marinaio in 10 minuti a Buffalo. Una sera era seduto in platea Giorgio de Chirico e, dopo lo spettacolo, volle conoscermi per complimentarsi. Mi disse sei stato molto bravo, mi aveva preso per un maschio. Io mi tolsi il berretto, rispondendogli: maestro, io sono una femmina. E lui, senza scomporsi, né meravigliarsi, ribatté: bravo lo stesso!».
Un altro suo illustre spettatore fu Eduardo De Filippo.
«Quando seppi che sarebbe venuto ad assistere alla mia Molly cara, ero preoccupata, non mi sentivo sufficientemente preparata, temevo il suo giudizio. Invece poi ebbe per me parole meravigliose: “Chista è o verbo nuovo”».
Quella volta con Pier Paolo Pasolini?
«Mi fece fare un provino per impersonare l’ancella di Maria Callas nella “Medea”. Quando arrivai nel suo studio, vedo una gigantografia della mia faccia: rimasi sorpresa! Pasolini, capendo la mia sorpresa, mi spiegò che gli piaceva la mia faccia: non hai la faccia da attrice, disse... Lì per lì mi prese un colpo. Pensai: allora non riuscirò mai a fare l’attrice... poi mi spiegarono che il suo era un complimento».
Un piccolo ruolo, ma vicino alla Divina Callas...
«Certo. Ma i ruspanti borgatari che affollavano il set di Pier Paolo non sapevano chi fosse! Dicevano: ma chi è quella co’ quer nasone? Forse l’amante del produttore, per questo fa la protagonista! Poi, su qualche settimanale, videro le foto della Callas con Onassis: lo chiamavano “il greco” ed erano convinti che la grandezza di quella col nasone dipendesse dal fatto di essere fidanzata col greco».
Non solo teatro, cinema... anche tanti amori e una cotta per Robert Mitchum.
«Sì, di amori ne ho avuti, e alcuni molto più giovani di me: ciò che mi attirava in loro era la forza vitale, mentre loro erano attirati dal mio microcosmo, umano e artistico, che desideravano esplorare. Mitchum fu un caso a parte: all’epoca molto più grande di me, eppure dotato di un fascino straordinario. Ero talmente attratta da quell’attore, che gli scrissi una lettera: naturalmente non l’avrebbe mai ricevuta, se non fosse accaduto che la mia amica Lina Wertmüller riuscì ad averlo ospite a Roma e, sapendo della mia cotta, mi invitò a cena a casa. Sulle prime, pensai a uno scherzo di Lina, invece era proprio vero! Vederlo seduto di fronte a me in salotto e provare nel petto un terremoto fu tutt’uno. Gli lessi la mia lettera, tradotta simultaneamente da un’interprete. Lui ascoltava e sorrideva divertito dalle mie parole. Alla fine ci prendemmo mano nella mano e ci baciammo: un bacio vero... Il mio sogno si era realizzato».
I più cari amici?
«Dacia Maraini, una sorella: la conobbi nella “Casa della donna” in via del Governo Vecchio a Roma, al tempo del femminismo, e a lei raccontai la mia storia familiare, che poi divenne Storia di Piera. Grazie a Dacia, conobbi Alberto Moravia: all’inizio mi sembrava un tipo brontolone, invece era un ragazzo scapestrato. Ricordo le vacanze trascorse insieme a Sabaudia: un trio perfetto, facevamo a turno chi doveva cucinare».
I sogni irrealizzati? Gli errori commessi?
«Aver detto no a Giorgio Strehler. Un grande maestro che mi aveva molto apprezzato per la mia “Molly”, tanto da soprannominarmi Mollyna. Mi voleva nel Temporale di Strindberg, ma temevo che non avrebbe approvato il mio metodo di recitazione e rinunciai all’offerta: un rifiuto che fece scandalo nell’ambiente, nessuno poteva credere che avessi detto no a un mago della scena. Strehler mi spaventava, temevo che non avrei avuto il coraggio di oppormi alle sue indicazioni registiche».
Un sogno ancora da realizzare?
«Mi piacerebbe impersonare un commissario in qualche giallo. Il mio viso scavato sarebbe adatto, per esempio, ad Agatha Christie: che ne dite di Miss Marple? Adesso, però, reciterò muta e su una sedia a rotelle nella prossima fiction Rai di Giacomo Campiotti, Ognuno è perfetto: bella sfida per un’attrice».