la Repubblica, 1 luglio 2019
Cosa può fare un genitore se il figlio è transgender?
Chiedere scusa non è un gesto sbrigativo ma un gesto umano e ha un valore terapeutico. Dissento con rispetto dalle posizioni espresse da Lorena Preta su questo giornale e ribadisco che le scuse di qualche giorno fa degli psicoanalisti americani alla comunità Lgbt (lesbiche, gay, bisessuali e transgender) erano dovute. Non certo per fare, all’insegna del politicamente corretto, d’ogni erba un fascio (confondendo condizioni diverse come omosessualità e transgenderismo), ma perché emendano atteggiamenti disumani e poco scientifici di una psicoanalisi superata. Ridurre tutto a patologia è un’arma subdola che ha colpito nel corso degli anni prima le donne (la teoria dell’invidia del pene), poi le persone omosessuali (immaturità psichica, perversione), infine le persone trans (psicosi, delirio). Ma non credo sia questa la storia che interessa i nostri lettori, che vorrebbero invece capire cosa è, dal punto di vista scientifico, il fenomeno transgender. Sia chiaro, non esiste una teoria in grado di spiegare perché un individuo sviluppi un’identità transgender. La “disforia di genere”, questo il termine tecnico, è definita una «marcata incongruenza tra il genere esperito/espresso e il genere assegnato, associata a una sofferenza clinicamente significativa», esacerbata dal bullismo scolastico e dal rifiuto familiare e sociale. Può iniziare molto precocemente, attorno ai 2-5 anni, ma solo in alcuni casi (circa il 20%) persiste dopo la pubertà. Va seguita attentamente perché rappresenta un fattore di grave sofferenza psichica, fino al suicidio. Le famiglie di solito non sanno come aiutare le proprie bambine che si dichiarano bambini (e viceversa) e spesso i medici di base, i pediatri e gli stessi psicologi si dichiarano del tutto impreparati. Prima cosa, dunque, è promuovere un’adeguata formazione medica e psicologica. Quanti sanno che esiste una World Professional Association for Transgender Health (Wpath) che ha elaborato specifici criteri per la diagnosi e la cura? Se le interpretazioni classiche mettevano al centro fattori di natura ambientale, oggi si tende a guardare la varianza di genere da una prospettiva più ampia in cui concorrono fattori biologici (disturbi cromosomici, esposizione pre-natale a ormoni specifici, alterazioni nella differenziazione cerebrale) e ipotizzati fattori psicologici (interazioni con i genitori e identificazioni complesse con i ruoli di genere). Se l’incongruenza di genere si manifesta spesso in età infantile, la pubertà, nella maggior parte dei casi, rappresenta un’età- soglia. La ricerca sugli adulti mostra un deciso miglioramento della qualità di vita dopo la terapia ormonale e/o chirurgica. Prima di ogni discorso “culturale”, è necessaria dunque una diagnosi competente e precoce, sempre accompagnata da un ascolto individuale e familiare.
Cosa deve fare una famiglia quando il proprio bambino sostiene, non per capriccio ma per convinzione schietta, inscalfibile e dolorosa, ancor più se dileggiata o contrastata con severità, di essere una bambina, o viceversa? Ecco una storia rappresentativa. Giulio, di 5 anni, viene inviato dal pediatra a un servizio di consulenza specialistica. La mamma è preoccupata dalla sua difficoltà a interagire con i compagni di sesso maschile, la sua passione per i giochi femminili e il desiderio manifesto e persistente di travestirsi «da Sailor Moon, la sua eroina preferita». A scuola pretende di andare nei bagni delle bambine. I genitori riferiscono che qualsiasi tentativo di fare di lui “un maschietto come gli altri” è stato fallimentare. Ai compagni e alle maestre dice di chiamarsi Giulietta. Fin dai primi colloqui i genitori comunicano alla psicologa il timore che il bambino possa essere omosessuale o, «peggio, transessuale. Insomma, non è il bambino che abbiamo desiderato». Chi “diventerà” Giulio crescendo? La psicologa ha condiviso con i genitori i vari scenari evolutivi suggerendo un approccio di tipo “osserva e aspetta”. Considerata la possibilità che il bambino stia esprimendo disagio per alcune dinamiche familiari che gli provocano sofferenza psicologica, ha proposto ai genitori un ciclo di incontri per promuovere la conoscenza e la comprensione sia dei loro affetti, pensieri e comportamenti, sia di quelli di Giulio.
È importante considerare il contesto di sviluppo in cui si inseriscono le varie espressività del genere (per esempio, bambini “femminili” e bambine “maschiaccio") e distinguere la “non conformità di genere” dalla “disforia di genere” vera e propria.
È fondamentale sapere che il mancato riconoscimento di una disforia di genere produce sintomi e disagi anche gravi. Ed è importante evitare contrapposizioni, molto dannose per il/la paziente, tra l’approccio medico e quello psicologico, che vanno semmai armonizzati. Diversi e contrastanti sono oggi i modelli di intervento. In questo momento storico, in cui i fenomeni che abbiamo descritto sono così recenti, non ha senso sposare un modello unico; più sensato è considerare, caso per caso, l’approccio più adeguato. Ma una cosa la so: l’incongruenza di genere ci chiama al più attento ascolto e al più profondo rispetto delle soggettività. Osserviamo e partecipiamo con attenzione, empatia e, quando occorre, coraggio, agli sviluppi futuri di una metamorfosi che potrebbe prendere forma sotto ai nostri occhi. Che la psicoanalisi sia sempre ospitale e attenta, mai spaventata e apocalittica.