la Repubblica, 1 luglio 2019
Confessioni di Donatella Versace
Donatella Versace dice che dopo A Star Is Born, l’anno scorso, non ha più visto altri film. È appassionata della serie Hbo Big Little Lies– Piccole grandi bugie, si è divorata The Society della Netflix e ha un nuovo libro preferito, il rapporto Mueller. Fa fatica a capire alcune delle conclusioni e delle scoperte dell’inchiesta sull’interferenza russa nelle presidenziali del 2016. Continua a sottolineare cose, chiedendosi (come le capita spesso) se il problema non sia la sua padronanza dell’inglese. Ma di Robert Mueller, il procuratore speciale, dice: «C’è qualcosa, negli uomini di legge, che trovo affascinante. Lo guardi e sai che sta dicendo la verità». E poi, ammette, «è un bell’uomo». «Ma questo non lo scriva, o mi gioco il visto».
È giovedì pomeriggio e Donatella Versace è appollaiata su un divano nella dorata e versacesca suite dell’albergo Midtown Manhattan dove soggiorna mentre è a New York come Stonewall Ambassador. Indossa dei pantaloni a quadri blu e arancioni presi dalla collezione Versace primavera 2019. La sua maglietta bianca è adornata con una bandiera arcobaleno fatta con cristalli di Swarovski, con al centro il logo della sua società. I gioielli che indossa sono essenzialmente tutti d’oro.
Lo scorso anno ha venduto la sua azienda a Michael Kors per 2,1 miliardi di dollari, secondo quanto riferito, ma nonostante questo è arrivata a New York con un volo di linea Emirates. «Un volo commerciale», dice Versace, che rimane la direttrice creativa della sua etichetta. «Volo sempre con voli commerciali».
Venerdì aveva in programma un’apparizione allo Stonewall Inn per un evento in commemorazione del cinquantesimo anniversario della famosa rivolta omosessuale. Ieri si era impegnata a sfilare al gay pride a bordo di un carro. E poi, «ovviamente», aveva programmato di andare a vedere lo spettacolo di Madonna al Pier Dance. Madonna ha una lunga storia con l’etichetta Versace: comparve per la prima volta in una campagna Versace nel 1995, quando Steven Meisel la fotografò come se fosse Donatella. All’epoca il fratello di Donatella, Gianni, era lo stilista capo dell’azienda. La sorella più giovane era la party gir l, la presenza fissa in prima fila, quella che faceva gli onori di casa e accompagnava le celebrità alle sfilate. Aveva i capelli che le arrivavano alla vita, indossava vestiti attillati pieni di borchie e mostrava il décolleté. E così il fotografo aveva fatto vestire Madonna.
Nel 2015, 18 anni dopo la morte di Gianni, Madonna tornò per un’altra campagna: questa volta rese omaggio alla Donatella manager, leccando buste e mettendo i piedi sul tavolo mentre digitava su un computer Apple. Che cos’è il potere vero nel mondo della moda se non la capacità di assumere una delle maggiori celebrità mondiali per impersonarti?
Ma c’è anche chi lo fa gratis. Versace non può quasi mettere piede fuori di casa senza che una drag queen la avvicini per ringraziarla dell’ispirazione che le offre. Lo attribuisce, fra le altre cose, alla sua «accettazione» degli altri, che sanno istintivamente che possono avvicinarla senza essere trattati male. «Gli dico. ‘Ciao, sono Donatella’, e loro ‘Aaah!’». Ma è anche il suo aspetto. «La pettinatura, il trucco, i vestiti», dice. «Sono una che non passa inosservata».
È stato Gianni ad avviarla su questa strada. Quando aveva 11 anni, le disse due cose importanti: che lui era gay e che lei doveva diventare bionda. Lei acconsentì e quello fu il suggello al loro cammino insieme. Quando divenne evidente che essere gay rappresentava un impedimento per vivere in Calabria, Gianni si trasferì a Milano, e lei lo seguì.
Negli anni ‘80 la moda era un settore dove gli uomini omosessuali erano più o meno accettati. Ma vivere la vita apertamente per il fondatore della griffe non era comunque facile. «Nostro padre era un uomo molto distante», dice Donatella. E infatti con lui Gianni non uscì mai allo scoperto. Quando Gianni era vivo, lui e Donatella a New York andavano alle serate gay. Dopo la sua morte, nel 1997, Donatella prese in mano le redini dell’azienda e divenne l’orgogliosa campionessa dell’opulenza italiana. Anche in clinica di disintossicazione, dove andò nel 2004 per risolvere la dipendenza dalla cocaina, la sua principale lamentela riguardava il guardaroba. «L’unica cosa che mi mancava erano i tacchi alti», racconta Versace, che da allora non ha più avuto ricadute.
Non ha gradito la scelta di Ryan Murphy di rivisitare il passato, l’anno scorso, con L’assasinio di Gianni Versace, seconda stagione della serie American Crime Story, quindi non ha visto Penélope Cruz nei suoi panni. Donatella dice che ci sono alcuni «errori» nella serie, ma non entra nello specifico. Vista di persona Donatella Versace è decisamente più sobria. L’abbronzatura è meno pronunciata e i capelli scendono non più giù delle spalle. Anche le sigarette sono sparite. «Due pacchetti di Marlboro al giorno», dice. Ha smesso cinque anni fa, quando un medico le ha detto che non solo sarebbe morta per il fumo, ma che non voleva più averla come paziente, se non avesse smesso. Ha trovato seducente che qualcuno avesse il coraggio di dirle di no. «Nessun altro lo ha mai fatto», dice.
©2019 New York Times News Service.
Traduzione di Fabio Galimberti