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 2019  giugno 30 Domenica calendario

Cosa non va nel piano Usa per il Medio Oriente

La creazione di uno Stato palestinese, accanto a quello di Israele, con una parte di Gerusalemme, quella orientale, come capitale. Un’idea purtroppo appassita. C’è stato e resta un riconoscimento di quello Stato da parte di centotrentasette Paesi, ma non da altri cinquanta della società internazionale. Col tempo l’ampia, ma parziale legittimazione si è come smarrita, volatilizzata, nella crisi mediorientale dalle tante teste, come l’Idra di Lerna. Quello che doveva essere lo Stato palestinese è restato un territorio occupato. Sopravvive la semplice idea. In essa si rifugiano le coscienze tormentate o distratte. Quel che non è riuscito a diventare realtà è stato declassato a un miraggio. Un popolo disperso, come altri nella Storia, rimane orfano, senza uno Stato indipendente al quale avrebbe diritto. Forti sono le tracce negli archivi delle cancellerie e nelle aspirazioni sofferte, ma il vero, autentico riconoscimento risulta irrealizzabile al punto che non se ne parla quasi più. Ancor meno se ne discute. E un’idea non realizzata col tempo “fallisce”.
Alla conferenza che si è tenuta a Manama, nel piccolo regno del Bahrein, dal 25 al 26 giugno, non si è neanche accennato al problema. Eppure all’ordine del giorno della riunione, promossa dagli americani, c’era un piano di sviluppo economico dei territori occupati palestinesi e della regione. Un piano con obiettivi ambiziosi: cinquanta miliardi di dollari (quarantaquattro miliardi di euro), da investire in dieci anni: i due terzi di questa manna virtuale da destinare alla Cisgiordania e alla Striscia di Gaza, e il resto alla Giordania, al Libano e all’Egitto, dove ci sono ampie comunità palestinesi. Per gestirla si è pensato a una banca di sviluppo internazionale, essendo, i beneficiari, ritenuti troppo vulnerabili alla corruzione.
L’autore del piano, comunque l’ispiratore, Jared Kushner, consigliere e genero del presidente Donald Trump, conosce bene il mercato immobiliare, è un’attività di famiglia, ed è basandosi su questa esperienza nel mondo degli affari che ha affrontato una crisi essenzialmente politica. Con questo spirito è stata varata l’ambiziosa riunione di Manama. Nel programma non figurava l’occupazione israeliana dal 1967 dei territori palestinesi; né la prospettiva di uno Stato palestinese indipendente; né il fatto che, trasferendo la loro ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme, gli americani hanno rafforzato l’impressione di un loro impegno in favore dell’annessione a Israele, sia pure parziale, della Cisgiordania. David Friedman, l’ambasciatore degli Stati Uniti a Gerusalemme, esprime apertamente questa posizione.
L’avvento di Donald Trump alla Casa Bianca ha segnato una svolta rispetto alla posizione dei predecessori. Alla Conferenza di Madrid, nel 1991, gli americani precisarono per la prima volta la loro visione di uno Stato palestinese. E nel maggio 2009, in un discorso pronunciato al Cairo, Barack Obama appoggiò la soluzione dei due Stati. Gli Stati Uniti dovevano riparare i danni provocati in Medio Oriente con l’invasione dell’Iraq, e cercavano di recuperare il mondo arabo, al quale stava ancora a cuore la questione palestinese. La situazione è radicalmente cambiata.
In Cisgiordania vivono circa mezzo milione di coloni israeliani, se si comprendono quelli insediati nei dintorni di Gerusalemme Est. Questa presenza in più della metà dei territori occupati è una realtà ormai incancellabile. È un’annessione di fatto, sia pure parziale, che anticipa quella formale. Rimuovere le colonie significherebbe creare nuovi profughi. E anche un grave trauma per la società israeliana, la cui storia non manca certo di tragedie. Una società in cui il dinamismo placa l’insicurezza, e in cui le passioni non impediscono agli intellettuali di descrivere con lucidità, nella saggistica, nella letteratura e nel cinema, i rischi che corre il paese: i lunghi servizi militari impegnano uomini e donne nel ruolo di occupanti nei territori palestinesi. Non è un’educazione ideale per le giovani generazioni quella basata sul controllo di un altro popolo.
I rappresentanti dell’Autorità palestinese hanno rifiutato l’invito alla conferenza di Bahrein perché hanno avuto la netta impressione che con il piano Kushner, in cui si parla soltanto di dollari (per ora virtuali), gli americani volessero comperarli. Di politica si parlerà più tardi, ha precisato Kushner, senza convincere molti governi arabi che hanno mandato a Bahrein soltanto ministri di secondo piano o anche semplici funzionari. Ha preso le distanze anche l’Arabia Saudita, che pur non avendo rapporti diplomatici con Israele è sua stretta alleata nel confronto con l’Iran. Quest’ultimo conflitto, tra sunniti e sciiti, è adesso dominante in Medio Oriente. Schierato con i primi, in particolare con l’Arabia Saudita, Israele conosce in questa fase un’integrazione un tempo impensabile nella regione. E la questione palestinese non impegna più tanto il mondo arabo.
I sauditi hanno mandato a Bahrein un ministro di rilievo, ma non hanno tuttavia approvato il tentativo di affrontare la questione palestinese come se fosse un affare commerciale, risolvibile con uno sborso di dollari. La posizione di Riad resta comunque irrealistica, o ambigua, quando chiede a Israele, in cambio di un riconoscimento ufficiale, il ritiro ai confini del 1967, ossia precedenti alla Guerra dei Sei giorni. L’esigenza non tiene conto del mezzo milione di coloni israeliani installati nei territori palestinesi. Una popolazione ormai inamovibile. Neppure un forte governo israeliano sarebbe nelle condizioni di sradicarla dai villaggi e dalle fabbriche e dalle piantagioni che ha creato. E gli Stati Uniti di Donald Trump, grande alleato dell’Arabia Saudita, hanno riconosciuto come capitale di Israele l’intera Gerusalemme, compresa la parte conquistata nel ’67. In Bahrein non c’erano rappresentanti palestinesi, ma neppure israeliani. Quest’ultimi in realtà presenti indirettamente con Jared Kushner.