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 2019  giugno 30 Domenica calendario

Romanzi alcolici

Viaggio a Echo Spring. Storie di scrittori e di alcolismo di Olivia Laing è un libro ispirato, vitale, e per quanto mi riguarda formidabilmente disturbato. Come sempre più spesso in certa buona letteratura anglosassone, si tratta di un’opera che se ne infischia di votarsi a un genere prestabilito, e che per questo va presa per ciò che è: saggio letterario, trattato antropologico, compendio di prose narrative, manuale di divulgazione medica, ma anche ricognizione autobiografica, diario intimo, resoconto di viaggio.
Affronta a brutto muso e come meglio non potrebbe l’etilismo di una manciata di grandi scrittori del Novecento americano. Già, i nomi sono loro, i primi che ci vengono in mente: Fitzgerald, Hemingway, Tennessee Williams, Cheever, Berryman, Carver (con qualche cameo di Capote, Lowell, Schwartz, Dylan Thomas e Faulkner).
Come a suo tempo ha notato Lewis Hyde (opportunamente citato da Laing): «Su sei americani che hanno vinto il premio Nobel per la letteratura, quattro erano alcolisti. E circa la metà dei nostri scrittori alcolisti ha finito per suicidarsi». Il che non significa postulare una relazione tra genio letterario ed ebbrezza etilica naturalmente, ma dare la giusta enfasi a un dato statistico a dir poco significativo.
«Per quanto riguarda l’origine di questo mio interesse – confessa Laing – ammetto di essere cresciuta io stessa in una famiglia di alcolisti. Tra gli otto e gli undici anni ho vissuto in una casa che era sotto il dominio dell’alcol e gli effetti di quel periodo mi hanno segnata».
Così, nel 2011, intraprende un vertiginoso on the road attraverso gli Stati Uniti, all’inseguimento degli spettri di questi geniali ubriaconi. Da New York, passando per Charlotte e New Orleans, giù giù fino a Key West; da lì di nuovo su, verso il nord-ovest più selvaggio, dall’altra parte della costa, con una breve sortita a Chicago, fino a Port Angeles. Il risultato è questo libro appassionato e dolente, sobriamente erudito, ricco di rimandi, insieme personale, sconcertante, autorevole.

«Gli scrittori, anche quelli più disinvolti e inseriti in società, devono in qualche modo essere degli outsider, se non altro perché il loro mestiere è quello di osservatori e testimoni». Così Laing parla di Cheever: delle sue pose altolocate in contrasto con i natali umili (di cui si vergognava) e con una natura desolatamente eccentrica. Ma mi pare che qualcosa di analogo si possa dire della stessa Laing, la quale degli outsider ha la libertà morale e la franchezza.
Dopotutto non esiste un modo giusto di parlare degli autori che ami e della loro degradazione civile. Ogni volta che lo fai, preghi Iddio di trovare una forma un po’ meno convenzionale del solito. Cos’altro dire del crollo nervoso di Fitzgerald, dell’infantile virilismo di Hemingway, delle compulsioni omo-erotiche di Cheever, della vanagloria di Berryman, delle attitudini delinquenziali di Carver? Ma il punto è proprio questo: forse non serve dire qualcosa di nuovo. È sufficiente rinnovare il punto di vista o, se mi passate l’espressione, rifare il guardaroba alle proprie impressioni. Ed è esattamente ciò che fa Laing nel suo libro. Si lascia andare alla poesia dei luoghi, trovando un punto di equilibrio tra accuratezza bibliografica e trasporto emotivo, tra nitore scientifico ed effusione lirica. Il tutto evitando come la peste le grandi metafore letterarie. Del resto, quando è proprio costretta a generalizzare, dà prova di pertinenza e puntualità. Che so, a un certo punto si sofferma su una coincidenza che a me pare davvero ironica, notando come le opere artistiche degli alcolisti siano zeppe di riferimenti acquatici: le piscine di Fitzgerald e di Cheever, i gelidi ruscelli di Carver, il mare che ispira Hemingway e che attrae Hart Crane fino a ucciderlo.
In un certo senso le storie e le personalità di questi beoni di successo si somigliano; in un altro ciascuna di esse rivela, com’è giusto che sia, un carattere proprio e inimitabile. Sono biografie trucemente drammatiche, spaventosamente solitarie e errabonde, ma non per forza dagli epiloghi tragici. Sia Cheever che Carver, a dispetto dei loro colleghi, trovarono la forza di ripulirsi. Come ammise Carver stesso in una famosa intervista: «Sarò sempre alcolista, ma ora non sono più un alcolista praticante».
A proposito di punti di vista, occorre dire che quello di Olivia Laing sull’alcolismo è pieno di senso pratico, insieme comprensivo e severissimo. Si vede che sa di cosa parla, che ci è cresciuta dentro. Sa cosa significa avere a che fare con un uomo o una donna adulti che se la fanno nei pantaloni o che si lasciano andare alle più inutili allucinazioni. Ciò le permette di tenersi alla larga sia dalla retorica bohémienne che dal moralismo puritano; non tratta la cosa come una faccenda di dannazione o redenzione. Ha frequentato troppi etilisti per dare credito al loro mondo paranoico, omertoso e spudoratamente negazionista. «Quando ripenso alla mia infanzia, spesso vedo delle scimmie di ottone che mia nonna teneva nel caminetto, che si tappano gli occhi, le orecchie e la bocca con le mani. Non sentire il male, non vedere il male, non parlare del male: la santissima trinità della famiglia alcolizzata».

Parlando di Blanche DuBois, l’infelice eroina di Un tram chiamato desiderio, Laing scrive: «C’è in Blanche qualcosa che ricorda una falena, un che di farinoso e ostile alla luce. Le piacciono le illusioni, le belle ombre, e le piace bere per la stessa identica ragione: per proteggersi dalla luce impietosa, dall’orrore della realtà, perché lei è troppo delicata per sopportarla».
Che ritratto esemplare! Così si scrive di letteratura. Del resto, viene da chiedersi se ciò che viene detto di Blanche non si attagli anche al suo creatore: il disgraziato, depravato, tenerissimo Tennessee Williams; e mica solo a lui ma anche a tutti i suoi colleghi di bevute. E mi chiedo anche se a toccarmi così profondamente di questo libro non sia stata proprio la sintonia emotiva che lega questi spiriti tormentati e alla deriva.
Più leggevo, più mi sembrava di capire l’«acuto senso di vergogna» che aveva reso intollerabili le vite di Fitzgerald, di Cheever e di tutti gli altri; capivo il senso di inadeguatezza emotiva e sociale che può condurti allo sballo e alla disperazione; i complessi di inferiorità, gli sbalzi d’umore, l’infermità, l’afasia, i pensieri suicidi, l’incapacità nel godere dei trionfi, il vittimismo, l’auto-indulgenza; capivo la misantropia, il nomadismo, i deliri nichilisti o religiosi. Ma soprattutto capivo perché la prosa degli alcolisti può essere allo stesso tempo torbida come uno stagno e nitida come un cristallo. E subito mi è venuto in mente Malcolm Lowry e il suo enigmatico capolavoro romanzesco.
Chi di noi non vive nel sospetto terribile che a un certo punto la vita abbia imboccato una strada sbagliata e senza ritorno? Ha ragione Laing allora: dev’esserci una trama nascosta che unisce l’esigenza di bere a quella di scrivere, entrambe «legate al sentimento che qualcosa di prezioso è andato in pezzi e al desiderio di ricomporlo – di dargli tonicità e forma, per dirla con Cheever – e di negare che sia così».