La Lettura, 30 giugno 2019
Gli scrittori e la notte
I tre fratelli che non dormivano mai. E altre storie di disturbi del sonno di Giuseppe Plazzi potrebbe suonare, a partire dal titolo, come una fiaba nera in cui paure arcaiche e malefici sono pronti ad assalirci nel momento di maggiore vulnerabilità che attraversiamo al termine di ogni giorno, cioè mentre dormiamo, o vorremmo dormire.
Plazzi, benché affronti nel suo libro diverse patologie connesse al sonno, ha scelto non a caso un titolo che evoca il disagio più diffuso: l’insonnia, di cui soffre in maniera cronica il 10 per cento della popolazione e in maniera transitoria una percentuale fra il 30 e il 35 per cento. L’eziologia di questa che è ormai considerata una vera malattia è piuttosto variegata: dal disturbo emotivo e psichico a quello fisiologico, in uno spettro di alterazioni il cui crinale è sottile e per certi aspetti ancora misterioso.
Io stessa ho un rapporto difficile con l’addormentamento e con la notte, ne desidero sempre un po’ di più di quanto riesca a concedermi. So che cosa significa rimanere svegli per ore, conosco la fatica e l’umore molesto che seguono una notte insonne, l’inclinazione all’abbandono di corpo e mente e, al tempo stesso, la resistenza che quest’ultima oppone al sonno.
L’insonnia altera la percezione della realtà, rende la mente più sensibile, più fragile e consapevole del fatto che passiamo, o dovremmo passare, per necessità organica poiché è l’unico modo per rigenerarci, almeno un terzo della vita a dormire, ossia in uno stato di incoscienza, di dissociazione fra il corpo, che si paralizza mentre sogniamo, e la psiche che rallenta e si riaccende secondo ritmi e cicli determinati. Non stupisce che fin dall’antichità il mondo del sonno abbia rappresentato un tema letterario per eccellenza e che nelle regioni del sogno e della semiveglia si aggirino da sempre scrittori e poeti. Plazzi ricorda che la medicina del sonno è recentissima: solo nel 1929 Hans Berger scoprì il modo per registrare le onde elettriche cerebrali, ma bisogna attendere gli anni Sessanta per le prime polisonnografie complete; viceversa la letteratura in maniera empirica ha fornito da sempre moltissime osservazioni, non di rado confermate in seguito dalla scienza, su quello che accade quando chiudiamo gli occhi.
Per i greci antichi – che non poco spazio hanno concesso al sogno e all’insonnia, ad esempio di chi ha pene amorose come Saffo o Medea, o di chi trama inganni, come gli Achei dentro il cavallo di legno ai piedi di Troia – i sogni non si fanno, si vedono. Il verbo idèin (vedere), in una lingua così precisa, si lega probabilmente all’osservazione del rapido movimento oculare sotto le palpebre che solo alla fine degli anni Cinquanta del Novecento è stato individuato come specifico del sogno, il cosiddetto sonno REM (rapid eye movements), che si alterna a intervalli di assenza di tali movimenti e di onde cerebrali assai più allentate. Chi dorme poco e male ha comunque una fase di sonno REM più resistente, e ciò spiegherebbe anche l’abbondanza di sogni e incubi nelle letteratura degli insonni. Non mancano, e il libro di Plazzi ne riporta una rilevante, le rappresentazione letterarie dell’eccesso di sonno. La sindrome di Pickwick che prende il nome dal vetturino obeso e dormiglione descritto da Dickens ne Il circolo Pickwick, ora nota come sindrome delle apnee ostruttive in sonno. Ma è di gran lunga l’insonnia a popolare l’immaginario letterario.
Macbeth di Shakespeare ossessionato dal regicidio appena commesso chiede alla moglie: «A che punto è la notte?», come a volere uscire dalla dimensione che lo ha reso criminale; nel corso della tragedia Lady Macbeth a sua volta cammina sonnambula, cercando di lavarsi il sangue dalle mani. Per l’Innominato di Manzoni è l’immagine stessa di Lucia, che lo prega di liberarla, a impedirgli di chiudere occhio e farlo rigirare sul materasso che diventa, di ora in ora, più duro. L’Innominato è trafitto da domande che ne incrinano l’identità e lo stile di vita; mentre Lucia si addormenta pregando, letteralmente affidandosi a qualcosa di più grande di lei, per lui non c’è spazio al diradarsi della coscienza. Anche l’insonnia di padre Sergej di Tolstoj coincide con una grande prova morale, la tentazione della carne alla quale ha rinunciato facendosi monaco.
In molti altri casi, soprattutto a partire dal Novecento, l’insonnia è un transito verso un’esplorazione, meno colpevole, di sé. Alla ricerca del tempo perduto di Marcel Proust inizia con una scena di dormiveglia divenuta giustamente celebre perché attraverso innumerevoli slittamenti temporali l’autore fa sorgere, dagli stati prossimi al sonno e da quelli ancora intrisi di sogno, le particelle coalescenti dell’io: non un’entità compatta e indiscussa, ma un flusso di esperienze, memoria, percezioni e coscienza che ogni volta si deve ricollocare rispetto al tempo e allo spazio. Dalla disgregazione dell’esistente indistinto all’unità ricomposta di chi dice io. Tutta l’opera proustiana è occupata da figure del sonno: sogni, addormentamenti, veglie e insonnie descritte con precisione clinica e immensa capacità evocativa. Il narratore, che in numerose scene de La prigioniera spia il sonno dell’amata Albertine, sa che mentre dormiamo diventiamo altro da noi stessi: Albertine addormentata, ai suoi occhi, si trasforma di volta in volta in un’alga, in una pianta, in un’onda o in una creatura acquatica; il sonno la rivela anche per ciò che da sveglia non è, abbandonata e non più sfuggente. Ma Proust sa anche come l’insonnia possa diventare l’identità che ci si costruisce, davanti agli altri e a sé stessi; è il caso della zia Léonie che dichiara comicamente «Devo ricordarmi bene che non ho dormito», rivelando quello che alcuni pazienti scoprono oggi sottoponendosi alla polisonnografia in una clinica ospedaliera: la mancanza di sonno può venire percepita, ed esagerata, in una misura che non corrisponde alla realtà delle ore effettivamente dormite.
Per Kafka l’insonnia era la maledizione che si accompagnava all’ansia della scrittura, al venir meno del tempo corroso dalla malattia; così annotava nei suoi Diari: «Domenica 19 luglio 1910: dormito, destato, dormito, destato. Vita miserevole. 21 luglio. Non posso dormire. Soltanto sogni e niente sonno». Quest’ultima osservazione ci riporta al fatto che il sonno REM, essendo la parte più resistente del sonno, arriva anche per chi ne soffre una severa restrizione. Kafka se ne lamenta e non a torto: durante la fase REM il cervello si riattiva più o meno ai livelli della veglia, difficile dunque sentirsi riposati, rinnovati, privati per quanto momentaneamente del peso dell’io, se la mente ha continuato a lavorare pur con modalità diverse da quelle coscienti. D’altra parte il suo racconto più celebre, La metamorfosi, collega fin da subito il destino mostruoso del protagonista a una notte tribolata: «Un mattino, al risveglio da sogni inquieti, Gregor Samsa si trovò trasformato in un enorme insetto».
Anche Natalia Ginzburg pativa l’insonnia e spesso l’attribuiva ai suoi personaggi nella formula stessa di Kafka: incapacità a dormire, sogni molesti. Teresa, protagonista dell’opera teatrale L’inserzione, prende sonniferi per addormentarsi «ma non mi servono a niente. Quando avevo Lorenzo, come dormivo! Dormivo così profondo! Ora dormo un poco e poi mi sveglio, m’addormento e mi sveglio, così tutta la notte. Sovente faccio un sogno, un sogno orribile. Mi sveglio tutta sudata».
Anche per Nabokov l’insonnia era una compagna fissa, nonostante si attenesse a regole auree per preservare una buona alternanza sonno-veglia: «Vado a letto alle nove. Leggo fino alle undici e mezzo, poi bisticcio con l’insonnia fino all’una. Un paio di volte alla settimana ho un incubo bello lungo con sgradevoli personaggi importati da sogni precedenti che compaiono in ambienti più o meno ripetitivi – combinazioni caleidoscopiche di impressioni frammentarie, brandelli di pensieri diurni, irresponsabili immagini meccaniche, il tutto assolutamente privo di ogni possibile implicazione o esplicazione freudiana, ma stranamente simile a quel corteo di mutevoli figure che di solito vediamo sullo schermo interno delle palpebre quando chiudiamo gli occhi stanchi». Dalle parole di Nabokov trapela la fascinazione, comune a molti scrittori, per lo spionaggio dei processi mentali che l’insonnia induce e per i processi della fase REM, forse non dissimili da quelli della creazione artistica: durante il sogno – ricorda Plazzi – si rafforzano i legami neuronali deboli, i collegamenti semantici meno evidenti.
Mariateresa Di Lascia, nel suo Passaggio in ombra (con il quale vince il Premio Strega nel 1995, l’anno dopo la sua morte ad appena quarant’anni) , regala alla protagonista del romanzo lo statuto di un’insonnia in cui ritroviamo di nuovo lo scarto fra esiguità di tempo dormito e intensità del sogno : «In questa attesa senza segni, io rifiutavo il sonno coi suoi simboli e le sue tentazioni. Fu forse per questo che mi accadde di cadere in un sonno più fondo degli altri» durante il quale ha un sogno che la turba fortemente, «nonostante avessi dormito pochissimo, forse qualche minuto, un quarto d’ora al massimo e la luce della stanza non fosse molto diversa da quella che avevo lasciata prima di cadere nella trappola del sonno».
Il filosofo romeno Emil Cioran ha scavato più di tutti nella ricaduta esistenziale dell’insonnia: «Tre del mattino. Un secondo, poi un altro. Faccio il bilancio di ogni minuto. Perché tutto questo? Perché sono nato. C’è un tipo speciale di veglia che deriva dalla messa in discussione della nascita».
Ma è in Cent’anni di solitudine di García Márquez che la sofferenza dell’insonnia da individuale diventa collettiva, e colpisce l’intera popolazione di Macondo per contagio di una bambina orfana arrivata da lontani parenti in città. Con la perdita di sonno se ne va anche la memoria e gli abitanti saranno costretti a scrivere su fogliettini le cose per ricordarsi perfino il nome degli oggetti e delle azioni più comuni, poiché il sonno è davvero la discontinuità di cui abbiamo bisogno per vivere.