La Stampa, 30 giugno 2019
Biografia di Kamala Harris
Un dato su tutti: due milioni di dollari raccolti nelle 24 ore successive al «match» di Miami. l’indicatore politico che consacra il trionfo di Kamala Harris al dibattito fra i candidati alle primarie democratiche in cui la senatrice della California ha messo alle corde il front-runner Joe Biden e offuscato la stella dell’altro favorito, il senatore socialista Bernie Sanders. Tutti pazzi per Kamala, quindi, come dimostra la pioggia di clic con cui i sostenitori, vecchi e nuovi, hanno donato mediamente 30 dollari. Battagliera, pionieristica, precisa come un compasso, la senatrice non lascia mai nulla al caso, come quando annuncia la sua discesa in campo per Usa 2020 nella giornata dedicata a Martin Luther King. Non a caso, appunto, per una politica come Harris, di madre indiana e padre giamaicano, e paladina dei diritti per le minoranze. «Corro per la presidenza degli Stati Uniti e ne sono emozionata», ha detto la 54 enne candidata stabilendo i quartier generali a Baltimora, animata da tensioni razziali, e Oakland, sua città natale.
E’ stata procuratore generale della California e procuratore distrettuale di San Francisco, dedicandosi alla lotta contro gli abusi sui minori. «Né "duri" né "morbidi’ ma furbi nel contrastare il crimine», è il suo mantra. «Essere intelligenti significa apprendere le verità che possono renderci migliori come comunità e sostenerle con tutte le nostre forze», scrive nel suo libro «The Truths We Hold: An American Journey», pubblicato poco prima della discesa in campo per le presidenziali. Mossa che avviene soltanto due anni dopo la sua elezione al Senato, proprio come accaduto per Barack Obama. E i suoi affondi contro Biden hanno ricordato a molti quelli dell’ex presidente contro Hillary Clinto. Alcuni azzardano l’esistenza di una simpatia particolare tra i due, anche se l’ex presidente è stato costretto a scuse nei suoi confronti quando la definì «la più bella procuratrice generale del Paese». Parole fuori luogo rispetto ai canoni del «politically correct», ma soprattutto rispetto al codice d’onore della senatrice.
Della sua vita privata racconta l’essenziale: si allena ogni mattina sul tapis roulant mentre guarda Mtv. Ama cucinare, specialmente indiano e si cimenta in duetti ai fornelli col marito, il procuratore Doug Emhoff, che impiega come «sous chef». Ma quando parla di cibo nelle vesti di politica è affilata come le lame che usa in cucina: «Gli americani vogliono sapere cosa metteremo sulle loro tavole», sferza sul ring di Miami mentre gli avversari si parlano addosso urlando esotiche ricette occupazionali.
È prima di tutto anti-trumpiana: «La gente merita un leader che metta i loro interessi davanti ai propri», tuona, promettendo che da presidente farà subito un decreto per ripristinare a pieno i diritti dei dreamer, estendere le protezioni contro i rimpatri forzati e liberare i bambini dalle «gabbie». E’ altrettanto implacabile con Biden che mette ko sfidandolo sullo scivoloso terreno delle questioni razziali. Se le primarie democratiche finissero ora Harris si giocherebbe la nomination con la vincitrice della prima notte di Miami, Elizabeth Warren, anche lei aspra critica della finanza speculativa tanto da meritarsi il soprannome di sceriffo di Wall Street. Rispetto alla senatrice del Massachusetts, classe 1949, la collega californiana è però considerata un ponte fra la generazione dei settantenni come Biden, Sanders e, appunto, Warren, e la nuova dei vari Beto O’Rourke e Cory Booker. Ecco allora che le quotazioni del ticket Biden-Harris diventano carta straccia mentre lievitano quelle di un «dream team» giovane. Magari col sindaco Pete Buttigieg, 37 enne, all’insegna di quella staffetta generazionale ritenuta sempre di più, sulla sponda sinistra del Potomac, l’unica arma efficace per espugnare la Casa Bianca.