La Stampa, 30 giugno 2019
Il duello Trump-Iran
Il Medio Oriente è palcoscenico di un duello a tutto campo fra Casa Bianca e ayatollah di Teheran che può generare un negoziato diretto sui temi più caldi della regione.
Il duello è sotto gli occhi di tutti. L’amministrazione Trump ha denunciato l’accordo sul nucleare del 2015, ha varato nei confronti di Teheran e dei suoi leader le sanzioni più aspre di sempre, ha dichiarato i Guardiani della rivoluzione un’organizzazione terroristica, ha rafforzato il dispositivo militare nel Golfo e sostiene la crescente intesa fra Stati sunniti e Israele per contenere la minaccia strategia iraniana nella regione. La Repubblica islamica dell’Iran da parte sua ha usato gruppi paramilitari per colpire le sedi diplomatiche Usa in Iraq, ha affidato ai pasdaran attacchi con le mine nel Golfo contro petroliere straniere, fornisce ai ribelli Houthi in Yemen i missili per colpire gli aeroporti sauditi, accumula armi di precisione in Libano e Siria per minacciare Israele, ha abbattuto un drone Usa (affermando che sorvolava il proprio territorio) ed ha annunciato la ripresa dell’arricchimento dell’uranio minacciando di abbandonare a breve l’intesa del 2015.
A prima vista si tratta di uno scenario che vede Usa e Iran - rivali strategici dall’avvento della rivoluzione khomeinista nel 1979 - in aperta rotta di collisione ma in Medio Oriente le prove di forza spesso servono a creare nuovi equilibri fra acerrimi rivali.
Se infatti facciamo attenzione a quanto affermano i più stretti collaboratori del presidente Trump, dal Segretario di Stato Mike Pompeo al consigliere per la sicurezza John Bolton, ci accorgiamo che l’intento di Washington, sin dalla denuncia delle intese del 2015 siglate dal predecessore Obama, è di arrivare a "un nuovo accordo" capace di contenere l’Iran su tre fronti.
Impedirgli di arrivare all’atomica, bloccare lo sviluppo di missili a media e lunga gittata, obbligarlo a sospendere le interferenze negli Stati della regione al fine di destabilizzarli facendo leva su gruppi terroristi e minoranze sciite. Ovvero Trump vuole negoziare con Teheran, come fece Obama, ma al fine opposto: non l’appeasement con l’avversario più pericoloso ma il suo energico contenimento al fine di indebolirlo il più possibile, in maniera analoga a come gli Usa trattarono con l’Urss durante la Guerra Fredda. D’altra parte i negoziati muscolosi con la Cina di Xi Jinping e i summit con il dittatore nucleare Kim Jong-un dimostrano che Trump cerca proprio il negoziato diretto, frontale, con il nemico giurato.
Sul fronte opposto, gli ayatollah di Teheran stanno mettendo in mostra tutte le carte che hanno per avere un impatto su Trump, proprio come si fa prima di sedersi ad una trattativa: attentati alle sedi diplomatiche, mine contro le petroliere, missili sfoggiati, droni abbattuti e minacce sull’uranio all’Agenzia atomica dell’Onu (Aiea) assomigliano ad altrettante pedine sul tavolo. Fonti diplomatiche a Teheran assicurano, inoltre, che l’Iran si sente in grado di uscire vincitore da un eventuale nuovo negoziato sul nucleare con Trump proprio come avvenne con Obama.
A rafforzare tale scenario c’è il tacito coinvolgimento dell’Oman, che già fu teatro dei negoziati segreti Usa-Iran con Obama, e l’insolito summit avvenuto nei giorni scorsi a Gerusalemme fra i consiglieri per la sicurezza nazionale di Usa, Russia e Israele con la partecipazione di Nikolai Patrushev ovvero l’uomo più potente al Cremlino dopo Putin. All’Orient Hotel, nell’antico quartiere dei Templari, i tre hanno discusso di Siria-Iran e Patrushev ha prima sostenuto in pubblico le posizioni di Teheran e poi si è seduto in privato con gli avversari degli ayatollah. Lasciando intendere che Putin è anch’egli parte di un possibile negoziato sul riassetto strategico della regione. L’unica vera assenza è quella dell’Ue ancora imbalsamata nella difesa passiva della fallace intesa del 2015. Resta da vedere se l’Italia, dopo la recente visita del vicepremier Matteo Salvini a Washington, sceglierà di sostenere il tentativo di Trump di portare gli ayatollah ad affrontare un negoziato capace di aumentare, e non indebolire, la stabilità del Medio Oriente.