Il Sole 24 Ore, 30 giugno 2019
Vita di Marcel Proust
Quando, nella primavera del 1896, i compagni di scuola di Marcel Proust videro il suo primo libro, I piaceri e i giorni, tirarono un sospiro di sollievo. Come tutti i mediocri, conoscevano perfettamente le leggi non scritte del mondo intellettuale e potevano constatare che Proust, senza saperlo, le aveva infrante tutte. Non solo era un’edizione di lusso con la copertina verde acqua languidamente illustrata, ma il prezzo restava molto elevato. Uno di loro, dopo averlo accusato di «affettazione e leziosità», gli rimproverò di sprecare le sue doti. Fu un altro, però, a toccare il tasto più dolente, scrivendo che Proust aveva «invitato tutte le fate, senza scordarne neanche una, alla culla del suo libro neonato».
Malgrado la sua innegabile, mostruosa intelligenza Proust non era il rivale temuto. A disarmarlo aveva contribuito l’attrazione irresistibile che lo spingeva verso la mondanità. Aveva sperato, lasciando dietro di sé le sponde della maldicenza e dell’invidia, di approdare in un mondo diverso, dove l’arte e la bellezza convivessero armoniosamente. Per questo aveva chiesto e ottenuto da madame Lemaire, pittrice ma soprattutto centro di un rinomato salotto, le illustrazioni del libro. In una si vedeva l’autore venticinquenne in frac a una cena scrutare con disinvoltura i personaggi mondani che l’avevano ispirato. Era il ritratto di uno scrittore che si illudeva ancora di poter partecipare alla vita che voleva raccontare.
I racconti in cui era più evidente la sua omosessualità erano stati scartati da quella specie di antologia del suo talento, ma il giovane autore non aveva rinunciato a pubblicare gli spartiti delle musiche composte dall’amato Reynaldo Hanh per il libro. Non a caso nella prefazione, una celebrità adulata dalle signore come Anatole France aveva scritto che Proust «non è affatto innocente… C’è in lui qualche cosa di un Bernardin de Saint-Pierre depravato e di un Petronio ingenuo».
Tra malignità e omaggi obbligati dei frequentatori dei salotti, la prima prova di Proust sembrò passare senza lasciare traccia. L’autore lo donò agli amici e comprò la maggior parte della tiratura per poi ristamparla solo molti anni dopo, contemporaneamente a All’ombra delle fanciulle in fiore.
In questo Proust avant Proust, Bernard de Fallois, eminente proustiano e geniale editore, intende dimostrare che il mondo di Proust era già tutto interamente presente nelle sue prime opere, che già al suo debutto Proust «aveva formulato il progetto di un libro unico e totale, che sarebbe stato un romanzo, ma molto di più e anche il contrario di un romanzo». Era stupito della diffusa sottovalutazione del primo libro di Proust, I piaceri e i giorni che a suo parere rivelava invece «una personalità già interamente formata, senza perifrasi e timidezze».
Fallois, che aveva estratto da un mucchio di inediti il primo grande romanzo di Proust, Jean Santeuil, aveva sempre contrastato la tradizionale divisione della vita di Proust in due parti, la prima, arida, dissipata nella mondanità e la seconda claustrale e creatrice. Proust, incalzava, non aveva mai smesso di scrivere dai vent’anni in poi. Scompare così la parabola del peccato e della redenzione che aveva finora consentito di dare un senso ai paradossi della vita di Proust. Lo slancio vitale di Bergson viene così sostituito da un percorso evolutivo circolare, che cresce senza abbandonare la sua impronta iniziale. «La storia di uno scrittore, afferma Fallois, non ha niente di rigido. È fatta di incontri, di fermate, sorprese, progetti abbandonati che riappaiono dopo dieci anni, personaggi che si sdoppiano o si riuniscono, illuminazioni misteriosamente trasformate: la storia di un romanzo è un romanzo».
A suffragare la tesi di Fallois, la permanenza in casa dello scrittore del celebre ritratto dell’amico Jacques-Emile Blanche resta indiscutibilmente un sintomo del legame persistente tra il dandy e il recluso volontario. Proprio nel Jean Santeuil Proust indulge con una tenerezza venata di ironia sul «brillante giovanotto che pareva ancora posare davanti tutta la Parigi mondana, senza timidezza come senza esibizione, guardando con i suoi occhi allungati e bianchi come una mandorla fresca, occhi tanto più capaci di contener pensieri quanto più in quel momento non ne avevano alcuno, come una vasca profonda ma vuota». Curiosamente, però, Proust tace sul disegno preparatorio del quadro, in cui grandi ombre scavano il viso riflessivo di un modello che non ha più nulla del frivolo protagonista dei salotti che ne sarebbe risultato sulla tela.
Tuttavia è difficile sminuire il ruolo guida della malattia nella costruzione della Ricerca. Era stata l’asma a confinarlo nella sua stanza e quindi nell’opera. Proust stesso, nel 1919, parlando proprio di Blanche aveva esplicitato la sua teoria della messa a distanza della vita come elemento imprescindibile della creazione. «Il pericolo per Blanche era che, elegante e spiritoso, egli disperdesse la vita nella mondanità. Ma la natura, che in caso di bisogno inventa nevrosi protettrici e infortuni tutelari perché il dono necessario dell’artista non abbia a restare inoperoso, fece in modo che questa reputazione di maldicenza introducesse assai presto un disaccordo tra Blanche e le persone che avrebbero potuto impedirgli di dipingere».
Comunque le immense dimensioni di qualsiasi grande opera sono grate a qualunque raggio di luce in grado di illuminarle da una prospettiva diversa. Quindi non bisogna soffermarsi all’antagonismo che sembra separare le varie interpretazioni, ma approfittare della nuova visione che offrono proprio grazie alla loro parzialità. E indubbiamente l’idea dell’opera proustiana come di una matrioska in cui l’ultima bambola è il frutto coerente della crescita della prima, minuscola e frettolosamente abbozzata, ha un fascino innegabile e mette l’accento sull’ostinazione e la coerenza segreta di questo Noè parigino, determinato a salvare dal naufragio del tempo le specie apparentemente più frivole e vane.