Il Sole 24 Ore, 30 giugno 2019
A tavola con Paolo Basilico
«La mia vicenda imprenditoriale è insieme molto italiana e poco italiana. È poco italiana perché io e i miei soci di Kairos abbiamo compiuto una innovazione profonda fondando, nel 2001, l’industria dei fondi alternativi. Nell’aprile di quell’anno la banca centrale autorizzò il primo fondo hedge. È molto italiana perché, in un Paese come il nostro che è il Paese delle fabbriche, abbiamo impostato la costruzione e lo sviluppo di Kairos secondo l’idea della fabbrica. Una fabbrica di prodotti finanziari. Ma, anche, una fabbrica di relazioni in cui la materia prima è la fiducia».
Paolo Basilico, 59 anni, sta chiudendo il cerchio. Un mese fa, il 31 maggio, ha vissuto l’ultimo giorno come consulente della sua creatura, che aveva lasciato nelle mani del nuovo amministratore delegato Fabio Bariletti già con l’assemblea del 16 aprile. Entro luglio si definirà il futuro di Kairos, con le offerte formulate da due fondi americani (JC Flowers e TA Associated) e da Mediobanca a Julius Baer, la banca svizzera che, dopo averla rilevata da lui e dagli altri 21 soci con una acquisizione iniziata nel 2013, ha deciso ora di cederla: «Non so ancora che cosa farò da settembre, mi piacerebbe dedicarmi alla diffusione della educazione finanziaria, troppi italiani semplicemente la ignorano».
Siamo da IT, in via dei Fiori Chiari a Milano. Gennaro Esposito, uno degli chef che hanno portato nella modernità, senza concessioni ad estetismi e senza eccessi intellettualistici, la cucina mediterranea, ha replicato qui a Milano questo ristorante, dopo avere aperto il primo a Ibiza. Intorno a noi il clima è tranquillo. A pranzo non c’è la frizzante vitalità della sera, che comunque appare una versione metropolitana, fondamentalmente borghese ed esteticamente accettabile della esagerata mondanità post spiaggia e ante discoteca dell’isola spagnola.
Basilico ha un vestito blu scuro in cotone, senza cravatta per il caldo estivo. Ha tre figli: Rocco di 30 anni, avuto con la prima moglie Nicoletta, e Pietro (25) e Luca (23), avuti con la seconda e attuale moglie Gabriella: «Per trent’anni ho avuto la testa su altro, mi sento più un mentore che un padre», ammette. La famiglia determina e modella chi siamo. E, questo, vale anche per lui. «Sono nato a Napoli, anche se manco da tanto tempo. Per questo ti ho proposto di venire qui». Scelta più che apprezzata: non saremo alla Torre del Saracino di Vico Equense, il ristorante storico con cui Esposito ha ottenuto le due stelle Michelin, ma impressionano – in un locale milanese – i sentori delle materie prime che circolano nell’aria, appena fuori dalla cucina a vista.
La pizza è sottilissima e tagliata a spicchi come quella dei bambini, con acciughe e capperi. «Mio padre Rocco, ai tempi dell’Iri, è stato presidente della Circumvesuviana, la ferrovia che collega Napoli ai centri circostanti. I miei genitori hanno origini popolari. Provenivano da famiglie di contadini, carabinieri e insegnanti elementari che avevano il culto dello studio. Mio padre è di Arzano e ha fatto il liceo classico a Napoli. Mia madre Flavia era di Conca della Campania e lo ha frequentato a Caserta, per poi laurearsi in lettere. Io sono nato in una casa al Vomero. La nostra famiglia è sempre stata segnata dal dovere e dal senso dell’ordine. Mio padre, che è stato vicepresidente di Alitalia, amministratore delegato di Fincantieri e presidente di Dalmine, era un uomo di cento chili e alto un metro e novantadue, autoritario e abituato a comandare». Paolo, in quella casa al Vomero, era il quarto figlio, il primo maschio dopo tre femmine: Antonella, Maria Teresa e Francesca. Antonella insegna storia dell’arte contemporanea ad architettura ed è stata dal 2004 al 2009 assessore ai beni culturali alla provincia di Napoli. Francesca è stata a capo della segreteria tecnica di Giovanni Goria e di Lamberto Dini; con Goria nei due governi Craxi, nel quarto governo Fanfani e nel governo omonimo; con Dini nel suo esecutivo. Maria Teresa ha avuto un’altra sorte. Scegliendo l’antipasto – Basilico prende il polipo, io del culatello – e parlando della famiglia, il pensiero corre a Maria Teresa e a quegli anni vissuti da Paolo bambino e adolescente a Napoli, fra l’esperienza della noia e della felicità e appunto la scoperta del dolore e del destino. «Mia sorella Teresa – racconta con tristezza negli occhi – morì a 18 anni di anoressia. Allora nessuno sapeva che cosa fosse e nessuno sapeva come affrontarla e curarla. Fu una tragedia con qualcosa di paradossale, in una città come Napoli che ha il culto del cibo».
Da studente della Bocconi, nell’estate del 1982, fa uno stage in una società di intermediazione titoli di Wall Street, la A.G. Becker. Ha scritto Basilico nel libro a sfondo autobiografico “Uomini e soldi” (Rizzoli): «Uno dei trader, con cui avevo fatto amicizia, mi disse di comprare insieme a lui e ad altri ragazzi delle opzioni sul titolo Colgate. A suo dire all’interno di questa “cordata” c’era qualcuno molto amico di qualcun altro al vertice della società, che gli aveva consigliato di investire sul titolo e di farlo in fretta perché sarebbe uscita a breve una notizia che avrebbe fatto salire l’azione. Si diceva che questo qualcuno le azzeccava sempre perché molto ben introdotto. La famosa informazione sicura. Inutile dire che tornai in Italia a settembre con le tasche vuote perché il titolo, anziché salire, scese».
Lui di primo prende un calamaro ai carciofi alla brace con limone e menta, io scelgo la minestra di pasta, un classico della cucina napoletana. Come vino beviamo uno chardonnay Cà del Bosco. «Dopo la laurea, sono entrato come analista in Banca Manusardi, gruppo Imi. La Borsa italiana stava esplodendo. Ero al gradino più basso. Ma i gestori di Allianz, Fidelity e Schroders parlavano con me per capire se aprire o chiudere le loro posizioni su Fiat, Montedison, Olivetti. Allora ho iniziato a sviluppare rapporti con i grandi investitori internazionali. Piazza Affari era opaca e non regolamentata. Era il tempo degli agenti di cambio. Si faceva tutto a leva. Le informazioni correvano di bocca in bocca. Tutti scommettevano forte. In tanti si sono rovinati. In pochi si sono arricchiti. Già allora mi sono collocato in istituzioni che mi hanno consentito di assistere e partecipare allo spettacolo della finanza, ma senza interpretare i ruoli in commedia più duri e spregiudicati». E, mentre mi versa l’acqua minerale, aggiunge: «Ho passato la vita in un acquario pieno di squali, con gli altri che mi guardavano e che si chiedevano se, sotto sotto, non fossi uno squalo anche io. Non potevo però essere uno squalo. Primo perché non mi sento tale. Secondo perché chi ti dà i soldi deve potersi fidare. Non duri nel risparmio gestito se non sei una persona corretta».
Nel 1988 entra in Mediobanca per sviluppare l’analisi e l’intermediazione di titoli italiani ed esteri con controparti estere. In Italia le realizzavano solo Sige, Euromobiliare, Credito Italiano e Comit. Mediobanca ne era sempre stata fuori. Alla Mediobanca più tradizionale costituita da Enrico Cuccia, Vincenzo Maranghi e Silvio Salteri si affiancava la Mediobanca dei più giovani, composta da Gerardo Bragiotti, Maurizio Romiti e Renato Pagliaro. «È stato come andare in un corpo militare. Le punte delle matite erano perfettamente temperate. Tutto era battuto a macchina. Ogni documento era corretto a penna. Si veniva guardati quasi con riprovazione per le ferie di agosto. C’era una attenzione assoluta ai costi e ogni sbavatura o ogni ambiguità etica venivano considerate intollerabili. Ma non era il posto che faceva per me. Bragiotti aveva convinto Maranghi a sviluppare la parte che curavo io. Ma Maranghi non ci credeva. Dopo tre anni e mezzo ho scelto di andarmene».
Come secondo piatto, condividiamo delle melanzane alla parmigiana. Il racconto che Basilico fa di sé è lineare: dal 1992 al 1998 è amministratore delegato di Giubergia Warburg, negli anni segnati dalla modernizzazione del mercato finanziario con la nascita delle Sim, la definizione del reato di insider trading, la legge sull’Opa, l’introduzione dei prospetti, lo sviluppo dei fondi di investimento, fino al 1999, quando fonda Kairos insieme a tre colleghi usciti da Giubergia Warburg, prima in Inghilterra con un fondo per l’equivalente di 70 miliardi di lire e poi in Italia raccogliendo 200 miliardi di lire, arrivando a gestire 11 miliardi di euro. In Italia è appunto la prima ad introdurre la cultura degli hedge funds e dei fondi flessibili senza benchmark.
«Non farò più il gestore, ma l’investitore in società che possano accelerare la loro crescita iniziale o espandere il loro sviluppo avvalendosi della mia competenza e dei miei capitali. Ho chiamato la nuova società Samhita Investments, un nome sanscrito che vuol dire unire, mettere insieme talenti e risorse. Che è quello che ho fatto nella la mia prima vita professionale, il risparmio gestito».
Basilico ha appena fondato il suo veicolo dal notaio Notari di Milano, con un patrimonio iniziale di 18,7 milioni di euro. «L’unico momento in cui ho avuto veramente paura è stato nel 2009, quando la massa in gestione è passata da 7,2 miliardi di euro a 3,9 miliardi. Gli istituzionali hanno ritirato i loro capitali. I privati non lo hanno fatto. Questo rapporto di fiducia con le persone è stata una delle costanti della mia storia imprenditoriale». E, approntandosi alla sua nuova vita, solleva il cucchiaino dal babà leggerissimo di Gennaro Esposito e pensa a quell’acquario, in cui nuotano tanti squali e lui che, per vocazione e per professione, squalo non è.